Campo visivo tra cronaca e fotografia
di Dario Coletti
L’assegnazione del premio Photo of the Year, sezione principale del Word Press Photo, al fotografo turco Burhan Ozblici ha generato una serie di posizioni polemiche e critiche. La foto vincitrice descrive l’assassinio dell’ambasciatore russo Andrey Karlov ad Ankara per mano di Mevlut Mert Altintas un giovane poliziotto turco probabilmente collegato a un gruppo terrorista, che dopo l’omicidio urla, in diretta, le ragioni del suo gesto: “ Non dimenticatevi di Aleppo, non dimenticatevi della Siria”.
Le ragioni che animano il fronte critico sono di diverso segno, e fanno intuire diversi intenti; per esempio, c’è chi si chiede se sia il caso di diffondere una foto così terribile. La prima domanda che mi viene è: ma la consideriamo così terribile solo perché il morto e il suo assassino sono fotografati all’interno di un contesto occidentale tutto luci, arte e relax? È forse questo che disturba una la nostra sensibilità di cittadini di un mondo che a parte qualche incidente vive ancora abbastanza tranquillamente lontano dalle guerre?
Altri, invece, dicono che questa foto è un atto di sciacallaggio in quanto lucra sulla morte altrui, come se un chirurgo fosse dichiarato sciacallo perché vive sulla necessità di pazienti che usufruiscono delle sue prestazioni. Un’altra schiera si dimostra convinta che la foto potrebbe funzionare come una propaganda a favore dell’Isis; anche questo risulta dissonante in quanto se esaminiamo la giuria che l’ha premiata potremo constatare la sua composizione per un novanta percento è formata da professionisti che provengono dall’Europa, Usa, Giappone e Australia professioniste, anche gli altri, difficilmente avvicinabili ideologicamente all'Isis.
Questi sentimenti controversi e questa reazione emotiva mi riporta alla mente un’altra foto scattata solo un anno prima da Nilufer Demir e che ritrae un altro morto, stavolta si tratta di Aylan Kurdi il bambino ritrovato senza vita sulla spiaggia di di Bodrum, in Turchia nel settembre 2015.
Mi incuriosisce il punto di vista dei testimoni, le loro motivazioni, la loro onestà. Ed è per questo ho ricercato e analizzato alcune considerazione che i due fotografi turchi hanno condiviso nei giorni successivi allo scatto. È interessante, prima di tutto, notare alcuni parallelismi e analogie tra le storie e lo stile dei due fotografi. Seppur con diverse aree di influenza entrambi sono turchi e entrambi professano il mestiere del fotoreporter con uno sguardo all'attualità; un lavoro che è anche una militanza, un impegno quotidiano. Per tutti e due un'esistenza sulla strada, alla ricerca continua di un equilibrio tra la propria sete di verità e il proprio sostentamento.
Diversa è l’età e l’esperienza, analoghi mi sembrano invece i sentimenti espressi. La giovane fotografa dice, ad un certo punto di un’intervista "… penso di essere nata per quegli scatti …” e poi parla della sua incredulità della sua commozione dell’incredulità e della commozione del poliziotto che raccoglie il corpicino. Mi sembra che voglia dire, sono nata perché dovevo raccontare questa storia, dovevo rendere partecipe tutto il mondo della tragedia in atto, perché era necessario che la mia indignazione diventasse un'esperienza comune per tutta l’umanità.
Burhan Ozblici invece mi colpisce quando dice: “… Ovviamente avevo paura ed ero consapevole del pericolo che l’attentatore si girasse verso di me. Ma mi sono avvicinato un pochino e l’ho fotografato mentre terrorizzava tutti. Pensavo: Sono qui. Anche se vengo ferito o ucciso, sono un giornalista. Devo fare il mio lavoro. Potrei correre via senza fare nessuna foto, ma che cosa potrei rispondere alle persone che poi mi chiederebbero: ‘perché non hai fatto nessuna foto’?”
Queste affermazioni semplici emozionano perché mi riportano a una fotografia non gridata che non cerca la ribalta, ma che mantiene chiaro il ruolo del proprio lavoro, della propria professione. Una scelta la cui conseguenza è il dovere di scavare nei fatti per far emergere le verità, per dare a tutti gli strumenti per poter capire. Pena, passione, commozione, paura, senso del dovere, quanti sentimenti in queste parole semplici, in questi comportamenti lineari emozioni che se le metti tutte insieme danno corpo a quella condizione, a quel concetto complesso che semplifichiamo col termine umanità.
A questo serve la fotografia a analizzare i fatti, a diffonderli a creare un processo di autoeducazione ed indurci alla promozione di azioni positive, a ricordarci che un gesto semplice come una parola, un intervento in strada, la partecipazione alla vita collettiva sono gli unici modi per cambiare, per far si che non accada mai più che un bambino sia trovato annegato sulle rive dei nostri paesi o che posti come Aleppo possano vivere in pace senza morti senza distruzione.
Infine io credo che le verità di cui entrambe le fotografie sono portatrici, hanno lo stesso valore di un bombardamento sulla nostra coscienza di occidentali, di europei soprattutto, che assistiamo, incapaci di qualsiasi azione, ad un dramma inaccettabile in nome di una comune appartenenza.
Nascondere queste fotografie all’opinione pubblica non premiandole sarebbe l’operazione vile e ipocrita di chi non ha il coraggio sufficiente di mostrare una realtà o una strategia di occultamento dei fatti a uso e consumo di quei potenti che hanno come obiettivo la spartizione del mondo a discapito di chi, se pur semplicemente, questo mondo lo fa progredire con la sua esistenza quotidiana. Semmai queste verità dobbiamo esigerle. Per questi motivi mi sento di dover rispedire al mittente le varie perplessità, dubbi o critiche; al di la di imperfezioni o sbavature dettate dall’emozioni del caso queste fotografie ci fanno riflettere. L’orrore che ci presentano non è attraente né induce in morbosità. Queste immagini sono solo pensieri istantanei e sinceri. Contributi faticosi che possono avere l’unica funzione di stimolare riflessioni e in ultimo di farci crescere.
Autore: Dario Coletti
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