Carlo Zoli - L'infinito volgere del tempo
Dopo Firenze, la mostra passa a Milano - Dal 9 maggio presso HUB/ART
(Corona Perer) - Dopo essere stata esposta a Firenzea Palazzo Guadagni Strozzi Sacrati (sede della Regione Toscana) la mostra “L’infinito volgere del tempo” dell’artista faentino Carlo Zoli, vola a Milano: dal 9 maggio al 15 giugno 2024 sarà nello spin-off di HUB/ART (via Nerino 2) a cura di Greta Zuccali.
E' l'infinito scorrere del tempo ad affascinare da sempre l'artista e la mostra evidenzia il lato più contemporaneo della poetica di Zoli: una costante ricerca - attraverso il mito - di ciò che è umano. Come ''L’Angelo ribelle'' in copertina, opera del 2021 emblema di tracotanza, la stessa che Dante cita immerso nella palude Stige accompagnato da Virgilio: “Questa lor tracotanza non è nova.” E così l'angelo è privo della capacità di volare: le sue ali si sono spezzate nel tentativo di avvicinarsi al sole.
Attraverso una selezione di ventotto pezzi unici e irripetibili, realizzati negli ultimi anni, mito e passioni umane prendono corpo come sotto l'azione di un demiurgo platonico che forgia ispirandosi al mondo delle idee, servendosi di argilla, patine, smalti, resine, metalli preziosi. La produzione va dagli anni novanta fino ad oggi, secondo un filo conduttore: il Tempo.
Tutto torna...siamo passato, presente e futuro. La concezione del tempo, la sua natura, il suo scorrere sono questioni che Carlo Zoli esemplifica racchiudendo le sue opere nel cerchio, una sorta di orbita circolare che dice lo scorrere e il ritornare della vita, ovvero che rimanda al presente. Da qui il titolo: l'infinito volgere del tempo.
La sua è arte contemporanea ma evoca miti e leggende. Zoli sottolinea la presa di distanza dalla concezione lineare del tempo per cui ogni cosa ha un inizio e una fine. Accettare la ciclicità degli eventi significa anche accettare i moti dell'anima, sospesi tra quiete e tempesta, emozioni e sentimenti. "Quanto a me, io creo nella tempesta" dice.
Zoli predilige creare modellando l’argilla che viene cotta e spesso trattata con il gesso quindi decorata con patine, smalti, metalli preziosi. Dal 1985 al 2019 le sue opere sono state esposte in mostre personali e collettive, fiere d’arte, biennali di scultura, musei, in Italia e in tutto il mondo. Quarto discendente di una famiglia di ceramisti faentini, Carlo Zoli è nato a Bari ma vive e lavora a Faenza. Viene da una famiglia con alto pedigree artistico: il bisnonno Carlo era ceramista nel Borgo Durbecco di Faenza, dove il nonno Paolo, già pittore presso i fratelli Minardi, ha poi fondato la Bottega di maiolica artistica La Faience, insieme a Pietro Melandri, Dino Fabbri e Amerigo Masotti; ma è al padre Francesco, a sua volta pittore, oltre che scultore e docente di Decorazione artistica, che Carlo deve la sua formazione e la spinta artistica.
(foto: C.Perer)
“L’opera di Carlo Zoli - spiega la curatrice Greta Zuccali - si può definire come una costante ricerca dell’umano. I risultati sono figure che in parte sono divinità, in parte individui mortali. Del tutto simili a quelle che abitano la Terra, si concedono il lusso di vivere le proprie passioni liberamente". Bellezza e provocazione, terra e cielo si danno la mano.
''Sangue vitale'' (opera del 2023) rappresenta una maga o forse una sciamana, che emerge dal profondo blu dell’universo e porta in dono la linfa vitale, quel seme che proviene dalle stelle, portatrice degli elementi primari da cui ha avuto origine il tutto, i pianeti, la nostra terra, la natura, gli esseri umani, e che continuamente e incessantemente si rigenera.
Creature eteree delle serie “Quiete” si confrontano con soggetti viscerali e battaglieri della serie “Tempesta”. Lavori di un trentennio di ricerca stanno accanto all'ultima produzione (alcuni sono inediti). E poi ci sono i guerrieri, tra cavalli e animali mitici che ricordano l'eterno ripetersi della vita ma anche il nostro essere sospesi tra bene e male, mortale ed eterno.
“Possiamo affermare che Zoli - spiega Zuccali - modellando la materia viva dell’argilla, prova a dare anima e forma a un paesaggio popolato da figure, talvolta enigmatiche e fantastiche, altre volte ancorate al mito classico, alla letteratura cavalleresca o alle tradizioni cristiane, immaginando un mondo parallelo a quello reale.”
(foto: C.Perer)
Dopo una pausa di riflessione e ricerca, nella quale è restato lontano dal mercato dell'arte, nella costante ricerca di una forte autonomia è tornato ad esporre nel 2022 alla sesta edizione di “FantastikA” alla Rocca Sforzesca di Dozza (Bologna) e da ultimo ha partecipato alla XIV Florence Biennale con tema “I am you”, presenziando al World Art Dubai e poi a Firenze, alla collettiva alla Fortezza da Basso e alla mostra dei premiati nelle diverse categoria all’Accademia delle arti del disegno.
Dopo Florence Biennale, dove ha vinto il primo premio nella categoria della ceramica, il maestro faentino era stato contattato per allestire le sue opere nella sede della Regione Toscana, dove ha portato una selezione di opere rendendo felice anche il Presidente della Regione Eugenio Giani, perchè l'unicorno - tema ricorrente nelle opere di Zoli - è il simbolo della Regione Toscana.
foto: l'inaugurazione fiorentina (C.Perer)
L’esposizione milanese - dopo quella fiorentina - è una nuova occasione per entrare in contatto con l’originalissima ricerca di Carlo Zoli che testimonia in ogni istante la necessità dell’esplorare. Spiega la curatrice che andare a cercare il senso dell’umanità trasforma ognuno di noi in moderni argonauti: alla ricerca di nuovi significati racchiusi in antiche forme.
In questa pagina (qui sotto) il testi critico di Luca Nannipieri
CARLO ZOLI “L’infinito volgere del tempo”
dal 9 maggio al 15 giugno 2024
C/o Spin-off HUB/ART - via Nerino 2, Milano
A cura di Greta Zuccali
www.carlozoli.com
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''GRAZIE, CARO ZOLI''
di LUCA NANNIPIERI*
Si prova un senso di gratitudine vedendo le opere di Carlo Zoli. Di fronte a esse, almeno per chi scrive, la prima parola che è uscita ed esce di bocca è "grazie". Di fronte, ad esempio, a opere come Gli Immortali, Titani, o L'altra metà di me, nasce in chi osserva un genuino movimento di riconoscenza. Nella complessa geografia dell'arte moderna e contemporanea, che ha bisogno di lunghi decenni per svilupparsi, solidificarsi e scorgere cosa emerga, è difficile prevedere quale possa essere la posizione che andrà ad occupare l'artista; ma a prescindere da questo, è dovere per chi scrive ammettere che, davanti a certe migliori opere di Zoli, si è provato emozione, in special modo, quella particolare e singolare emozione che ha il nome strano di ricchezza. Se una persona esce più ricca guardando un'opera d'arte, quell'opera d'arte ha assolto una parte dei suoi impegni col mondo. Così è accaduto per chi scrive, guardando certi lavori di Zoli.
Una lettura più meditata delle sue opere, ci porta ad appuntare alcune riflessioni che sono quelle che qui seguono.
L'arte di Zoli nasce impastando le dita delle mani nell'argilla. La tradizione di famiglia e del contesto geografico romagnolo, caratterizzato dalla produzione ceramica, è stato l'humus in cui è cresciuto, sollecitato, oltre che dai classici, anche dal confronto con le sculture di contemporanei come Francesco Messina e Augusto Murer, dei quali ha studiato la plasticità, la possibilità di riuscire con pochi tratti, a volte non rifiniti, a generare energia vitale. Zoli non ama lavorare il marmo, la pietra, che è il materiale di preferenza nella storia della scultura. Il motivo lo dice lui stesso ed è molto interessante trascriverlo: l'artista lavora in silenzio. La pietra è rumorosa mentre viene scolpita. L'argilla, invece, è silenziosa, si lascia maneggiare nella quiete, permettendo a Zoli quell'intimità di creazione, quel non aver distrazioni di suono, che sono la condizione più ideale in cui far fermentare i suoi lavori. L'argilla però non basta all'artista e infatti la accompagna spesso ad altre materie: il ferro, la foglia di rame, la foglia d'oro, le resine, il vetro, gli smalti, il gesso. Il perché di questo "polistrumentismo" è dettato forse dalla natura di ciò che Zoli rappresenta, andando in controtendenza con la storia pregressa della scultura che è prevalentemente mono-materica: il marmo, il bronzo, la pietra. Il punto di riferimento dell'artista è il sommo Michelangelo.
Ma proprio il mito di Buonarroti ha solidificato una linea secolare della mono-materia scultorea che è arrivata fino a noi, lasciando in penombra - relegandole quasi a decorazioni - altre possibilità della scultura, come le terracotte smaltate e invetriate, le pietre preziose, gli arazzi: i Della Robbia, i Cellini, i Chini, sono stati resi "minori" proprio da quella tendenza al privilegio del materiale unico per la scultura che Zoli, nel nostro tempo, insieme ad altri, intende non avallare.
Quando Zoli ha finito l'opera, la lascia sedimentare, sostare in un tempo di riposo, in modo da valutarla diversamente col trascorrere delle settimane. Qualora non lo convincesse, la distrugge e riparte. Può sembrare un dettaglio secondario di biografia, quest'ultimo gesto. Invece è rilevante, perché dimostra quanto l'artista prenda sul serio la sua ricerca, al punto anche da scartarla, qualora essa non rispondesse a quanto si è generato nella sua mente.
In Zoli ciò che viene raffigurato non è mai soltanto la sua nuda apparenza: una donna non è una donna, un cavallo non è un cavallo, un cavaliere non è un cavaliere. Ogni figura, anche la più essenziale, salvo rari casi, è trasfigurata dalla compresenza di più simboli che, volutamente, vanno a problematizzare l'opera. Anzitutto, il più frequente: il cerchio. Zoli spesso iscrive i suoi lavori all'interno di una grande circonferenza in metallo che architettura lo spazio visuale. Non è soltanto una decisione estetica. Il cerchio in sé, nella vita di tutti i giorni, non è un simbolo: una ruota d'auto è a forma di cerchio ma è soltanto uno strumento. Il compasso segna un cerchio sul foglio, ma non è un simbolo: è una figura geometrica. Il cerchio diventa un simbolo - l'eterno ritorno, la forma perfetta, chiusa in se stessa, la ciclicità - quando interagisce e si potenzia con altri segni di riconoscimento in una rete di narrazione simbolica. È esattamente quello che fa Zoli. Il cerchio si misura dunque con altri simboli inseriti nella composizione.
Zoli alimenta le sue opere di due ordini di simboli: i simboli elementari, basici, geometrici, ovvero, supremamente, il cerchio, la sfera, il teschio, lo specchio d'acqua, e poi i simboli di secondo ordine, deducibili dalla stessa titolazione delle opere o dal modo con cui li cromatizza: ad esempio, la giara, il ragno, la benda, il fuoco, la piuma. L'interazione, in alcune opere, di questi simboli, problematizza le figure rappresentate, siano esse umane o equine.
Volutamente Zoli non ritrae mai volti fatti realisticamente. I suoi volti sono sempre stilemi, maschere. Anche gli elmi dei suoi guerrieri sono maschere. Finzioni. Perché? Perché l'arte trasfigura il reale per permetterci uno sguardo più a fondo nel reale stesso. Finge, ma è una finzione a specchio: la realtà viene più rappresentata, se viene finta. E quella di Zoli non è la finzione del grottesco, della caricatura. E' la finzione assai complessa che parte dalla rilettura dei miti, ma non si riduce e non vuole ridursi all'esegesi puramente scenografica del mito. "Leggo e dimentico" è la più che feconda dichiarazione dell'artista quando parla del suo confronto con la mitologia antica.
Le zampe dei cavalli alati sono spesso affusolate e consapevolmente allungate, nelle versioni di Pegaso, di Perseo, delle figure mitizzate, creando proprio in esse un punto di robustezza e fragilità, di non rottura, in cui il soggetto sta immobile eppure sulla soglia di un precaria incrinatura. Forza e debolezza, una segreta contesa, si agitano sempre nelle opere di Zoli.
Anche il colore non ha una funzione puramente timbrica, descrittiva, didattica, ma svolge un compito d'interazione simbolica. La foglia oro, ad esempio, non è usata per impreziosire cromaticamente i lavori con il suo allure, con il suo prestigio: è utilizzata con discernimento per metterla in contrasto con altre cromie e far risaltare così la forma che avvolge: se è un guerriero è scuro e la foglia oro avvolge il suo elmo e il suo scudo, l'artista ci sollecita ad una lettura simbolica di quell'elmo e di quello scudo.
Se guardiamo infatti uno degli ultimi cicli, ad esempio, le opere come Il sangue vitale, Io sono Ira, La porta sull'Aldilà, il colore e le variazioni dello sfondo interagiscono con il metallo che cerchia i confini dello spazio visuale, con la foglia d'oro che tempra e screzia la rotondità delle sfere, i teschi, gli elmi, il petto di Ira, la ciotola che preserva il rosso sangue. Insomma il colore non è un vezzo decorativo, ma è parte integrante nella lettura simbolica che queste opere sollecitano in chi guarda.
Carlo Zoli ha una maestria che a molti artisti contemporanei manca: sa comporre le figure tra loro. Sembra un gesto facile: è uno dei più difficili. Perché nelle composizioni con più figure, a gruppi, ciascuna figura è responsabile della posizione, della misura e dell'azione delle altre: si condizionano, si alimentano, si potenziano reciprocamente. L'azione è corale. L'insieme è aggrappato ad una regia che deve far bilanciare le parti con il tutto e il tutto con le varie singole parti. Si guardino, ad esempio, alcune delle sue opere più riuscite, ovvero i Titani e gli Immortali. Sono entrambe sculture nelle quali il nostro sguardo è preso dall'interazione scenica, teatrale, delle figure, che si magnetizzano tra di loro. Questa coralità è un portato antichissimo: la statuaria delle civiltà antiche, dalle mesopotamiche alle greche e romane, è statuaria anzitutto di gruppo; le metope, gli altorilievi, le sculture pubbliche, mostrano scene collettive di guerra, di trionfo, di dominio, di festa.
Rappresentazioni collegiali sono anche le raffigurazioni cristiane, dalle vie crucis alle deposizioni. Carlo Zoli eredita questa coralità di esposizione e la fa sua, in modo personale, basti vedere Sulle Ali della Libertà, in cui tre cavalli alati si dispongono in forza e slancio dell'altro, le gambe contratte o distese nella spinta, le ali che si armonizzano nelle diverse posizioni.
Come è consuetudine in tempi moderni, l'artista sigilla le sue opere con una firma. Dopo un evento traumatico che non vorremmo mai accadesse nella vita di una persona e che Zoli con i familiari ha patito, l'artista appone un marchio con la scritta attribuita a Eraclito: "panta rei". Tutto scorre. Certo, tutto scorre, è in divenire. Ma cosa scorre? L'amore per suo figlio resta, non scorre. Anzi ora "per sempre sei animo della mia anima, e la liberi. Ora meglio la liberi che non sapesse il tuo sorriso vivo" scriveva Giuseppe Ungaretti in morte di suo figlio piccolo. Il bisogno di creare, di generare opere che provino a fare resistenza al tempo, non scorre. Vivo è questo bisogno nel cuore di poeti come Ungaretti e di artisti come Zoli.
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