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Colchico, l'erba di Circe

Erbe & Streghe di Gloria Canestrini

L'erba di Circe: il colchico. Pare che Circe, insieme alla “collega” Ecate, coltivasse un giardino dove crescevano rigogliose  molte piante curative e velenose.

La mitologia antica annovera un gran numero di donne guaritrici, alle quali, grazie ai loro saperi, venivano attribuiti anche poteri magici. Tra queste, a possedere conoscenze farmacologiche specifiche, era la famosa  maga (e dea) Ecate, figlia di Perse.
Scrivono i due biologi Monika Niehaus e Michael Wink, nel loro gustosissimo libretto “Come trasformare gli uomini in maiali”( Piante psicoattive e veleni in antichi miti e leggende):

“Secondo la leggenda, Ecate curava un giardino circondato da alte mura con erbe e piante velenose nella regione della Colchide, sul Mar Nero. Nell'antichità era descritta come una donna crudele e pare abbia sperimentato sui suoi ospiti la tossicità dell'aconito”.

Un'altra temuta preparatrice di veleni era Medea: si narra che riuscisse a far ringiovanire un uomo, dapprima facendolo a pezzetti, poi cuocendolo in un decotto con erbe magiche e, infine, ricomponendolo.

Ma, indubbiamente, la più celebre figura di maga empirica tramandataci dall'antichità (grazie a quanto possiamo ancor oggi leggere nell'Odissea di Omero e nell'Eneide di Virgilio, è Circe, “tremenda dea, con l'erbe potenti in musi e dorsi li ebbe stravolti...” come la definisce il poeta romano Publio Virgilio Marone, nato nell'ottobre del 70 avanti Cristo (Eneide, libro VII,vv.8-20).

Virgilio si riferisce all'avvenuta trasformazione dei compagni di viaggio di Ulisse in maiali da parte di questa maga da egli definita “ricca figlia del Sole dai boschi inviolati”.

Omero ci descrive addirittura le modalità di questa trasformazione “...univa nel vaso farmachi tristi, perché tutti scordassero la terra paterna/ e appena ne diede loro e ne bevvero, ecco che subito con la bacchetta battendoli, nei porcili li chiuse”.
Una delle erbe  usate da Circe che, somministrate in dosi non mortali, poteva indurre attraverso le sue proprietà stupefacenti la sensazione di essere degli animali, era il colchico, della famiglia delle Liliaceee.

Questa pianta conosciuta anche alle nostre latitudini (ne sono pieni i prati sia all'arrivo della primavera che in autunno), nella sua “versione” autunnale è una delle piante più velenose presenti in Italia per la presenza della colchicina, un alcaloide tossico. Portarsi il fiore alla bocca è estremamente pericoloso in quanto 0,02 grammi appena di colchicina possono essere letali.

Scrive, infatti, Plinio: “Coloro che devono cogliere quest'erba stanno attenti a non avere il vento contrario...”. Purtroppo è accaduto che diverse volte (la più recente ha annoverato l'avvelenamento mortale di una coppia di Cona deceduta in Trentino) in autunno gli stimmi rosso-arancione racchiusi nel bellissimo fiore color lilla siano stati scambiati con quelli contenuti nel fiore del croco alpino primaverile, da cui viene estratto lo zafferano.
Bellissima l'immagine descritta dalla grande paesaggista Vita Sackville-West: “E' bello ammirarli in primo piano per poterne meglio apprezzare le pennellate di colore sulla pagina esterna dei petali; sembrano tracciate da un pennello sottile dalla mano sicura di un invisibile copista cinese che le sfuma in bronzo e lilla”.

 

Giusquiamo, mandragora, colchico, erano dunque le erbe contenute nel crogiolo della maga Circe, sapientemente dosate per indurre sopore, allucinazioni e arrendevolezza negli uomini che intendeva manipolare e sedurre: naturalmente la moderna farmacopea ne fa altro uso, essendo la colchicina utilizzata per trattare e prevenire gli attacchi di gotta e quelli ricorrenti di artrite infiammatoria acuta con dolore, arrossamento e gonfiore delle articolazioni. Anche qui, con estrema cautela, in quanto il potente alcaloide può rendere più sensibili alle infezioni e abbassare le piastrine nel sangue, esponendo a un maggior rischio di emorragie.

Entrambe queste piante, il velenosissimo colchicum autumnale e il delicato crocus sativus, sono da sempre associati al mondo femminile. La prima, dispensatrice di morte e la seconda, produttrice del prezioso zafferano, considerato fin dalla medicina araba e poi nel Medioevo una vera panacea.

Nell'Iliade Eos, l'Aurora, indossa un “peplo color del croco”, mentre la dea Parvati apparve a Schiva   in una veste color zafferano.

L'unguento crocino era un tempo considerato un potentissimo filtro d'amore e, di seduzione in seduzione, questo ci porta negli annali della criminologia e della repressione e alla tragica storia di Bellezza Orsini, prostituta e medichessa, accusata di stregoneria.
Nata a Castelvecchio (Rieti) tra il 1475 e il 1480, godeva di una certa libertà d'azione, probabilmente anche in relazione ai suoi buoni rapporti con il clero del luogo.

Con i frati del convento di San Paolo, per la verità, aveva intessuto un assiduo rapporto basato sul commercio sessuale, di cui evidentemente Bellezza aveva una certa esperienza. Da una sua deposizione, apprendiamo che Bellezza Orsini non si era limitata  a questo, avendo fornito ai frati di San Paolo anche “donne, vidue, zitelle, maritate, vecchie o juvene, ne ho facte havere quante tale quale ne hanno volute....non ne porria di questo dire tanto quanto ne ho facte al modo loro, se hano voluto a letto o in casa, come li è piacciuto”.

In cambio, come si evince dalla bella ricerca storica di I.Tozzi “ Bellezza Orsini, cronaca di un processo per stregoneria”, la “tenevano multo ben cara, staca a magnar a tavola con loro, ad cuchiari e forchette d'argento, perché li faciva cavar le voglie di quelle donne che volivano: se volivano una donna ne haviano due...”.

Bellezza non era solo un'abile maneggiona, come scrive Massimo Centini nel suo “I sacri crimini”, ma “possedeva inquietanti conoscenze legate al mondo della magia, un mondo che aveva spesso una stretta correlazione con quello della medicina tradizionale”.
Da guaritrice a strega, come sappiamo il passo era brevissimo. Anche Bellezza Orsini incappò nel temuto tribunale dell'Inquisizione e per lei finì malissimo, come in altre centinaia di migliaia di casi.

L'imputazione più grave non fu certo quella di aver allietato i frati di San Paolo con intrattenimenti erotici, ma la donna fu accusata di aver portato all'interno del convento di San Paolo un misterioso libro “di 180 carte dove stanno tucti li segreti del mondo, boni e cattivi”.
Nel fitto repertorio  di formule raccolte nel libro, compariva sia il tenero croco che il micidiale colchico, ben conosciuti dalla farmacopea del tempo. Fieramente, prima di essere condannata alla pena capitale, rifiutò per l'ultima volta di svelare la provenienza di quegli scritti, finalizzati a produrre effetti come la malattia, la morte, la guarigione, la risoluzione dei piccoli problemi quotidiani: “Io  ho un secreto che sta nel mio libro: de far andare dove lu homo vole, de dì e de nocte, e non sarà mai vista da nessuno; e si se l'homo vole andar da la donna, manco serà visto e ne sentito da nessuno, e li cani non sentiranno...”.

Un'ultima beffa? Sta di fatto che i frati si appropriarono di quelle carte, ma non raggiunsero l'agognata invisibilità. Bellezza Orsini, dal canto suo, non diede ai suoi aguzzini la soddisfazione di giustiziarla e si uccise nella sua cella trafiggendosi con un chiodo la notte prima dell'esecuzione.

 


Autore: Gloria Canestrini

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