Dario Coletti e la fotografia scolpita
Le ultime sperimentazioni del fotografo romano
"La fotografia non dice la verità, più verosimilmente la cerca. La verità semmai, la dice il fotografo quando, presente ai fatti, seleziona e cattura un particolare da una scena complessa, dichiarando in modo deciso che quello rappresentato è solo un suo punto di vista".
Dario Coletti si interroga da sempre sulla verità filtrata dall'immagine. Il fotografo, a forza di frequentare la fotografia, diventa uno strumento della coscienza. E lui cammina nella fotografia come poteva fare Socrate con la sua lanterna. Più che le risposte gli interessano le domande. E sperimenta incastonando le proprie riflessioni personali sul far fotografia, tra cronaca e narrazione.
Fotografo e pubblicista nato a Roma nel 1959, è coordinatore del dipartimento di fotogiornalismo dell’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma dove inoltre coordina la Scuola di Fotogiornalismo. Le sue foto sono conservate presso biblioteche e musei nazionali. Giornale SENTIRE ha scritto di lui ripetutamente per gli straordinari reportages dedicati alla Sardegna e all'Etna. Negli ultimi anni è approdato a una fotografia di più ampio respiro, approfondendo il rapporto tra fotografia e antropologia visiva e sperimentando altri linguaggi come il film documentario e la scrittura. E' anche autore di SENTIRE e della rubrica CAMPOVisivo.
L'ultima produzione di laboratorio abita nella sua camera chiara cioè il "tavolo di lavoro" in cui si processano le foto in formato digitale, quindi è il computer o meglio il software. Di base, una camera chiara deve contenere: un computer per la post produzione e la modifica delle immagini, un monitor, una stampante. Il resto lo fa il genio.
Quella di Coletti sembra fotografia scolpita o letteratura fotografata. Non è certamente o come banalmente potrebbe sembrare "scultura fotografata" è proprio cesellata dall'obeittivo. Foto-racconti che chiamano alla mente Luigi Pirandello quando in "Uno, nessuno e centomila" afferma: “Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà".
Schivo, timido e a volte acido. Si descrive così Dario Coletti che qualche anno fa ( "Il fotografo e lo sciamano" ed. Postcart), svelò in un libro autobiografico quel che di magico e sciamanico c'è in fotografia dando di sè pennellate sempre asciutte e intense. "Il mio nome è Dario, romano, classe 1959. Ho imparato con l’esperienza che non si ha patria, che non si ha tempo".
Tra citazioni di Pasolini e Vittorini, passando per versi di De Andrè, ed echi letterari tra i quali Pavese e il Moby Dick di Melville, da Dino Buzzati a Edgar Allan Poe, Coletti si soffermava su Hermann Hesse. "… più di tutto avrei amato diventare un mago. Questa era la mia più intima e sentita inclinazione..." scriveva il grande autore tedesco ne "L’infanzia del mago". Coletti confessa qualcosa di analogo e che ha molto a che fare con la fotografia.
"Da piccolo volevo essere un mago e inventavo incantesimi per vincere i nemici più grandi di me, oppure per diventare invisibile, impercettibile al resto del mondo. Era un gioco di bimbo nella casa dei nonni paterni, dove ho vissuto i primi anni della mia vita. Il nonno mi ha appassionato alla storia". E cosa è la fotografia se non la magia dell'istante fermato e della narrazione storica che si cristallizza in un magico istante?
Autore: Corona Perer
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