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Giosuè, condottiero e uomo del dubbio

Elie Wiesel e la memoria di un popolo senza terra

di Corona Perer - Gli ebrei fecero guerra. Lo dice la Bibbia nel libro di Giosuè pieno di sangue e privo di poesia. Il premio nobel Elie Wiesel, ebreo, però distingueva. “Attenzione, tutta la letteratura ebraica è una letteratura di pace. Anche se il più grande libro sulla guerra risiede proprio nella Bibbia nella quale accanto e personaggi meravigliosi ce ne sono di molto scomodi. Fra i primi potremmo mettere Giobbe (che ci assomiglia così tanto in quel dolore che perseguita l'essere umano). Fra i secondi va certamente messo Giosuè, il guerriero. Figura scomoda, combattente indomito, il comandante più valoroso della storia ebraica e anche il più vittorioso.

L’aula magna di West Point ha una lapide nella quale lo indica come il primo e più eminente stratega e comandante della nostra civiltà e molti generali israeliani di oggi ammettono che se non avessero conosciuto la sua tattica alcune operazioni di difesa del loro paese avrebbero potuto fallire.

C’era Giosuè anche nella prima operazione di spionaggio che la storia racconta quando Mosè manda i capi delle 12 tribù ufficiali a esplorare la terra di Canaan. Al ritorno fecero rapporto: 10 di loro la consideravano bella felice, ma non conquistabile. Solo Giosuè e Calev dissero fiduciosi: “si può fare” e la ricompensa fu che solo loro 2 fra tutti coloro che lasciarono l’Egitto entrarono nella terra promessa.

Giosuè, uomo del dubbio, morì solo con nessun intorno che gli dicesse grazie (tranne Dio), dopo una vita nella quale era stato capo contro al sua volontà, costretto a proseguire il lavoro del suo amato maestro Mosè, sposo di una prostituta per ragion di stato, deriso dai dignitari al momento del suo insediamento.

Lecito chiedersi: Giosuè aveva altra scelta? Quale degno successore di Mosè, suo maestro, avrebbe potuto rivolgersi a Dio e dirgli “se il sangue e la violenza sono il prezzo di una sovranità nazionale, no grazie mio Signore, prenditi un’altra nazione non i discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe e i discepoli di Mosè”.

Fu costretto a vincere suo malgrado tante battaglie in nome di Dio: sgominò i 31 re di Canaan e fu brutale. Elie Wiesel si chiese: se è vero che Giosuè agì su ordine di Dio, perchè Dio fu così crudele? Perché i suoi ordini furono così spietati? Non poteva Dio fare ciò che aveva fatto sul mar Rosso cioè combattere “per” il suo popolo anziché “far” combattere il suo popolo? La risposta è semplice dice Wiesel. “Egli avrebbe potuto ma scelse di non farlo perché la cosa non fosse troppo facile per Israele. Volle che avesse la sua terra, che per essa combattesse, pagasse col sangue ebraico e non”. Perché è solo con la conquista della terra che nasce una nazione, ce lo dice la storia. Il Talmud considera il Libro di Giosuè il depositario del diritto ebraico alla terra, l’archivio nazionale e legale del popolo ebraico.

Ed è così che Dio diventa problema. Come potè accettare che si versasse tanto sangue lui che aveva fermato il sole e la luna compiendo come Mosè dei miracoli? Non poteva Dio fare ciò che aveva fatto sul mar Rosso cioè combattere “per” il suo popolo anziché “far” combattere il suo popolo?

Weisel tenta una risposta mostrando alcune cose in controluce del primo condottiero israeliano. Cronologicamente Giosuè segue Mosè. “Personaggio inquietante” dice Wiesel, discepolo perfetto e il prosecutore della sua opera. Sarà lui a raggiungere la terra promessa. Giosuè è  un prolungamento di Mosè, un capo quasi per caso. Mosè gli affida il comando di respingere un attacco nemico. Non sappiamo perché fu scelto. “Scegliti alcuni uomini e caccia l’aggressore” si sente dire. La prima e principale qualità di un capo deve essere quella di riconoscere il valore delle persone e sapere intuitivamente come, dove e quando servirsene. Mosè aveva avuto naso: Giosuè era abile, leale discreto e fidato, era il perfetto aiutante e il perfetto capo di stato maggiore. Gli era sempre stato accanto sin da adolescente  e lo considerava un maestro. Messaggero e portavoce, uomo di fiducia e di comando, maestro di strategia, Giosuè riuscì dove Mosè aveva fallito.


Il popolo è con lui, lascia con lui il deserto, non costruisce idoli e non lo mette sotto accusa come aveva fatto con Mosè, che aveva dovuto attraversare innumerevoli tormenti alcuni causati da Dio altri dal suo popolo. Per Giosuè sembra tutto semplice. Il popolo obbedisce, e poiché quando Israele obbedisce alla legge vince, mentre se la trasgredisce perde, Giosuè legge la Torah prima di condurlo in battaglia.

I suoi uomini combattevano perché sapevano per cosa combattevano e per chi. Si serviva di spie (ad esempio per la conquista di Gerico), motivava le truppe per rafforzare la volontà nazionale, usava metodi di guerra psicologica, servendosi anche dei rituali per sfidare il nemico.

Celebre l’ordine dato ai 7 sacerdoti: prendere l’arca dell’Alleanza con 7 trombe di corno e per 7 giorni consecutivi fare per 7 volte il giro delle mura di Gerico, al settimo giorno attaccare. Tatticamente un capolavoro: gli abitanti assediati erano sbalorditi da un nemico strano, del quale non capivano le movenze, il non-attacco. Al settimo giorno l’ordine fu: urlate e attaccate. “Cosa fece crollare le mura?” scrive Weisel “le grida o il silenzio che le precedette? L’elemento sorpresa fu così forte  che la fortezza non si oppose all’attacco. Gerico fu conquistata senza sforzo”.

Ma allora cosa fu Israele? Un popolo che parla di pace ma vuole la guerra? E' con questo Israele che fece la guerra e seppe essere spietato che siamo a disagio, oggi come allora: quando assistiamo all'inifinita guerra con la Palestina, a quel muro che divide, alle accelerazioni e alle cadute di tutti i processi di pace.

Eppure Wiesel insiste nei suoi libri: “Nessuna tradizione, nessuna storia è orientata alla pace come l’ebraismo. Esclusa la Bibbia, la letteratura di guerra è sorprendentemente povera nella tradizione ebraica. “Per diventare nazione Israele doveva combattere. Giosuè fece di un popolo composto tribale, una nazione. Forse Dio voleva che Israele combattesse questa guerra una volta per tutte in modo da perdere il gusto per la guerra”. Nella storia dei popoli, le nazioni si liberano saltuariamente della loro violenza interna e degli impulsi distruttivi o autodistruttivi. C’è chi lo fa all’inizio della sua storia, come nel caso di Israele, e chi dopo. Alcune civiltà iniziarono col predicare la pace, fratellanza e amore e col passare del tempo in loro nome si abbandonarono a distruzioni su larga scala. Israele fece il contrario.

Tuttavia anche se Giosuè vinse, la Bibbia non se ne vanta. Eppure Wiesel ammette che la guerra può sembrare a volte inevitabile e giustificabile. Il Talmud afferma che la terra di Canaan apparteneva a Israele fin dalla creazione, i Cananei erano soltanto residenti temporanei. Perciò le guerre di Giosuè ''furono di riconquista, non di conquista” scrive Weisel che vede in Giosuè l’uomo che ricorda al suo popolo come la lotta facesse parte di un disegno divino.”

A questo punto cosa dire alle vittime di Canaan? Non furono vittime di Dio?

“Sì lo furono” ammette Weisel “Fu Dio che dette la loro terra ad Abramo e qui fu commessa la prima ingiustizia. Giosuè non poteva fare altro: il sacro dovere di Giosuè era liberare quella terra la sua guerra non era guerra di conquista ma una guerra di liberazione”.


Autore: Corona Perer

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