Gabriele Basilico, Roma
Il fotografo delle identità metropolitane
“Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta” diceva Gabriele Basilico .
Otto anni fa (era il 12 febbraio 2013) moriva lasciando un grande vuoto nella fotografia italiana. La sua ricerca continua ad essere fonte di riflessione per quanti desiderano approfondire il tema del tessuto urbano e dei suoi cambiamenti. Che si trattasse di Milano, Istanbul, Beirut, Berlino o Roma la sua fotografia era fortemente urbana. Lo interessava la forma e l’identità delle città, lo sviluppo delle metropoli, i mutamenti in atto nel paesaggio postindustriale.
Gabriele Basilico (1944-2013), è stato uno dei più grandi fotografi degli ultimi cinquant’anni e punto di riferimento per diverse generazioni di architetti, urbanistie paesaggisti. Considerato uno dei maestri della fotografia contemporanea, è stato insignito di molti premi e le sue opere fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private italiane e internazionali.
Milano fu per Gabriele Basilico cruciale. Il suo primo progetto fotografico fu “Milano ritratti di fabbriche 1978- 80”, lavoro sulla periferia industriale milanese, nato “dal bisogno di trovare un equilibrio fra un mandato sociale – che nessuno mi aveva mai dato, ma che era la conseguenza dell’ammirazione che provavo per il lavoro dei grandi fotografi del passato – e la voglia di sperimentare un linguaggio nuovo, in grande libertà e senza condizionamenti ideologici”, come ha scritto Basilico stesso. Dopo quel primo progetto comincerà una ricerca che condurrà il fotografo in varie città del mondo.
Di Roma ci lascia un magnifico racconto fotografico che venne esposto nel 2008 in una mostra nella capitale curata da Angela Madesani. Le sue foto sembrano richiamare Tiepolo e forniscono della capitale una versione romantica e delicata che oggi è difficile ritrovare pur nell'eterna bellezza della metropoli.
"C'è un grande silenzio nel fiume di Gabriele Basilico. I dilatati tempi di posa dello scatto rendono un fiume pettinato, stirato, levigato, trasformano le rapide dell'acqua, il mercurio dalle superficie dense e lucide, ne annullano il suono e ci restituiscono una afono scorrere" ha scritto Firouz Galdo nel catalogo edito della mostra "Roma2007" a cura di Marco Delogu al Palazzo delle Esposizioni nella primavera 2008.
La vita di Gabriele Basilico fu "a tutta fotografia". Nasce a Milano nel 1944, dopo la laurea in Architettura (1973), si dedica con continuità alla fotografia e si dedica all’identità delle città. “Milano ritratti di fabbriche” (1978-80) è il primo lungo lavoro che ha come soggetto la periferia industriale. Nel 1984-85 con il progetto “Bord de mer” partecipa, unico italiano, alla Mission Photographique de la D.A.T.A.R., il grande incarico governativo affidato a un gruppo internazionale di fotografi con l’obiettivo di documentare le trasformazioni del paesaggio francese.
Ma nel 1978 fece una scorribanda nei dancing in Emilia Romagna per incarico del mensile di architettura e design Modo che gli aveva chiesto di compiere un'indagine fotografica sul mondo delle discoteche in Emilia Romagna, e più compiutamente sul fenomeno delle balere emiliane.
Basilico realizzò un reportage di quella che fu poi definita la "Nashville italiana" esplorando trecento chilometri di dancing, da Reggio Emilia alla Ca' del Liscio di Ravenna, ricavandone un affresco sul divertimento di massa. Ne esce un Basilico meno intimista e più gaudente. Strappato per una volta alle nebbie grigee delle metropèoli industriali che ha saputo raccontare con ineguagliabile rigore e poesia. Tra i lavori degli ultimi anni, Roma 2007 (di cui riferiamo in questa pagina), Silicon Valley, Mosca Verticale, indagine sul paesaggio urbano di Mosca, ripresa nel 2010 dalla sommità delle sette torri staliniane, Istanbul 05 010, Shanghai 2010, Beirut 2011, Rio 2011, Leggere le fotografie (2012). Partecipa alla XIII Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia (2012) con il progetto “Common Pavilions”, il cui volume è stato pubblicato da Contrasto.
12 febbraio 2020
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L'intercity di Gabriele Basilico
intervista
(ottobre 2008) - Intercity è una serie di 40 scatti tra Beirut, Istanbul, Barcelona, San Francisco e Buenos Aires. Un lavoro sulla città contemporanea secondo un grande della fotografia: Gabriele Basilico. “Intercity” non poteva passare inosservato e si è subito aggiundicato il prestigioso premio della Fondazione Astroc di Madrid nel 2007. Ritenuto uno dei maestri della fotografia italiana contemporanea, architetto di formazione, Basilico indaga forma e identità delle città, lo sviluppo delle metropoli, i mutamenti in atto nel paesaggio postindustriale contemporaneo sono da sempre i suoi ambiti di ricerca privilegiati. Su questi temi ha pubblicato oltre sessanta tra libri e cataloghi, partecipando a innumerevoli progetti e committenze pubbliche. Le sue fotografie fanno parte di prestigiose collezioni italiane e internazionali. Lo abbiamo incontrato al Mart nel 2008.
Oggi si parla molto dei non-luoghi del vivere contemporaneo. Cosa sono per lei i non-luoghi?
Le periferie deformi dove non c’è rapporto col contesto. Secondo me - però - si usa questa definizione a vanvera. Il libro su Intercity ospita il testo di Marc Augè che l’ha coniata. Ora è trendy usarla come una etichetta, magari senza cogliere il senso vero. La perdita di identità della città sta nei quartieri senza volto, nelle deformazioni del territorio che rendono le città meno riconoscibile.
Un esempio?
Sono non-luoghi quegli ipermercati non tanto per ciò che si trova dentro, ma perché nascono nel territorio di un preciso comune ma sono a cavallo di vari comuni ed è questa la rivoluzione: la loro polifunzionalità senza identità o relazione col contesto.
A Milano ha chiuso l’agenzia Grazia Neri celebrata al Mart pochi mesi fa. La crisi ha messo in ginocchio il mercato della fotografia. Di chi è la colpa: del digitale, di internet o photo-shop?
Accedere alla fotografia di qualità oggi è più facile, penso che bisognerebbe fare lo sforzo di cambiare i sistemi di vendere la fotografia e diversificare. Operazione difficilissima, me ne rendo conto. Penso che il ruolo di un’agenzia non sia finito, forse va solo ridisegnato. Chi fa reportage ne ha bisogno, ma chi come me lavora su progetti specifici normalmente no.
Lei ha registrato le mutazioni del paesaggio anche qui in Trentino. Quale è l’angolo di mondo che si augura non venga mai intaccato dall’uomo?
Per essere sincero è un angolo ampiamente violentato dall’uomo: Beirut, città che rappresenta la mia pagina di vita professionale più intensa.
Come si presentò ai suoi occhi?
Semi-distrutta. Era il 1991 e la città usciva da una lunga sanguinosa guerra. Ci arrivai con una missione internazionale: eravamo una squadra di fotografi, tutti reporter tranne me. La Fondazione Hariri (che era un costruttore prima di dientare premier) chiedeva di raccontare la fine di una guerra un attimo prima della ricostruzione. Fu il lavoro più intenso in assoluto, il più forte.
Basilico, tanti premi tanti viaggi intorno al mondo: quale è lo scatto che oggi la farebbe ripartire immediatamente?
Non saprei, la mia è una missione esplorativa mai finita dove tutto ciò che incontro diventa mia materia.
Il governo francese monitora le trasformazioni del paesaggio. In Italia esistono progetti di questo tipo?
Fortunatamente sì. Citerei l’Archivio dello Spazio, un programma decennale indetto dalla Provincia di Milano su 196 comuni del suo territorio che ha consentito negli anni ’90 di far sì che il paesaggio diventasse il tema dominante della fotografia artistica.
Cosa indagherebbe oggi che non ha ancora fatto?
Ogni tanto l’impeto mi porterebbe sulle città ferme che non cambiano mai come Cuba che è ancora screpolata e identica a se stessa, potrebbe essere uno spunto. Dopo trent’anni di fotografia urbana e più di 60 libri o si fa una svolta radicale oppure si continua a nutrire l’archivio che reclama nuove immagini e le metabolizza.
Lei che è anche architetto, cosa ne pensa del fare architettura oggi?
Come molti cittadini sono attento alla architettura. Non possiamo non pensare al territorio che cambia. Ma c’è stata per molto tempo più edilizia che architettura. Tuttavia penso che non si ebba avere paura del nuovo o fare resistenza a ciò che sembra ardito. Bisogna anche osare: le cattedrali sono sorte sulle ceneri di altre chiese più antiche è sempre un’occasione di rilancio.
Sempre parlando di architettura: i Romani furono grandi costruttori, il Rinascimento lo abbiamo fatto noi italiani. Nel 2008 lei ha svolto una ricerca sulla città di Roma. Cosa ne è emerso?
Ne è emerso un fiume meraviglioso. L’idea nazionale era attraversare la città usando il tevere come strada, volevo vedere come cambia la forma della città, ma in realtà Roma è rimasta sullo sfondo: il fiume mi ha fregato ed è diventato protagonista con i suoi circa 30 ponti e i cieli autunnali. Molte persone di Roma hanno visto una capitale del nord-europa sconosciuta a casa loro.
(ottobre 2008)
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