Marcello Flores: ''Una storia vera''
Metz Yeghern, il Genocidio degli Armeni. Ma la Turchia nega
Metz Yeghern, è il Grande Male per gli Armeni. Si ricorda il Genocidio vissuto da questo popolo, il primo della storia. Una stori rimossa da molti paesi (primo fra tutti la Turchia che ne fu la protagoista). Una rimozione che è stata generale, basti pensare che gli Usa hanno riconosciuto il genocidio degli Armeni solo nell'aprile 2021. La Turchia tramite il premier Erdogan ha avuto una violentissima reazione, perchè la Turchia non ha mai voluto saperne di ammettere le proprie responsabilità. Ma la storia degli Armeni è una storia vera.
Sul tema ospitiamo lo storico e studioso Marcello Flores in un intervento autorevole pubblicato sul nostro supplemento cartaceo SENTIRE 19 (maggio 2015).
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Genocidio Armeni, una storia vera
di Marcello Flores* - Il centenario del genocidio armeno (2015) ha visto, dopo anni di silenzi o di interesse parziale e attenzione selettiva, il coinvolgimento e la partecipazione di un numero enorme di persone, desiderose di conoscere, di capire, di avere gli strumenti per poter interpretare e giudicare una delle tragedie più orribili della contemporaneità, la prima distruzione di massa intenzionale di un popolo sviluppata sul continente europeo, nel contesto della prima guerra mondiale.
Malgrado continui da parte del governo e dello stato turco una politica di minimizzazione di quell’evento, derubricato a massacro di guerra analogo a quelli che coinvolsero i cittadini turchi, nella stessa società turca sono sempre più frequenti le voci di chi vuole capire il passato, di chi non accetta le censure del regime, di chi pretende che la storia non sia oggetto di verità di stato ma il libero terreno di ricerca, di studio, di discussione.
Quando il 24 maggio 1915 la dichiarazione congiunta di Francia, Gran Bretagna e Russia dichiara “crimini contro l’umanità” (per la prima volta) i massacri degli armeni, il genocidio è iniziato esattamente da un mese, da quando a Costantinopoli (Istanbul) sono stati arrestati centinaia di dirigenti politici armeni, leader della comunità, intellettuali, commercianti, uomini d’affari, giornalisti, studenti, funzionari pubblici, che verranno nella maggior parte assassinati nei giorni successivi. In realtà è già da un paio di mesi che si sono avute ripetute uccisioni di massa, espulsione dalle case e dai villaggi, requisizioni dei beni, arresti e violenze d’ogni genere.
Tra la fine di febbraio e di marzo del 1915, tuttavia, vi è stato un cambiamento, è accaduto qualcosa che ha trasformato assassinî sporadici e violenze sparse nell’attuazione di un progetto di annientamento di un popolo attraverso massacri, deportazioni, confisca di ogni bene. Da molte testimonianze e da una documentazione archivistica inoppugnabile sappiamo ormai che a fine marzo il Comitato centrale del partito al potere nell’impero ottomano – il Comitato Unione e Progresso (Ittihat ve Terakki) – ha deciso di porre fine a quella che veniva chiamata la «questione armena».
Ai governatori delle province il ministro dell’Interno – Talât Paşa, l’uomo forte del regime – inoltra l’ordine di deportazione nei deserti della Siria e dell’Iraq, mentre i segretari locali del partito controllano che essa venga attuata e ne rendono conto a Talât. Un ruolo decisivo nel genocidio lo svolge l’Organizzazione speciale (Teşkilat-ı Mahsusa), un’unità paramilitare che era stata creata nel 1913, durante la seconda guerra balcanica, per neutralizzare i nemici «interni», e che è guidata da Bahaettin Şakir, uno dei dirigenti del CUP. Per portare a termine il genocidio l’Organizzazione speciale si serve, oltre che di fedeli membri del partito, di criminali che sono stato liberati dalle carceri e a cui è stata promessa la libertà se svolgeranno con efficacia gli ordini che sono loro trasmessi.
Per dare una parvenza legale e cercare di nascondere il suo vero obiettivo, il governo ottomano promulga due leggi «provvisorie»: il 27 maggio la legge di deportazione e il 10 giugno la legge di espropriazione e confisca. Le due leggi, combinate insieme, rendono chiaro il disegno di espellere – e non temporaneamente, come si presentano entrambi i decreti, ma definitivamente – gli armeni dalle zone del loro insediamento storico, sgomberando del tutto dalla loro presenza l’Anatolia orientale e la Cilicia. Se si fosse trattato di una necessità di guerra – allontanare momentaneamente un gruppo etnico ritenuto a torto o a ragione a rischio di tradimento – non ci sarebbe stato alcun bisogno di depredarlo anche economicamente dei suoi averi, che anzi avrebbero dovuto essere salvaguardati con particolare attenzione.
Il processo di deportazione venne accompagnato e intrecciato da violenze d’ogni tipo: assassinii, mutilazioni, stupri, rapimenti, torture, conversioni coatte, riduzione in schiavitù, furti e brutalità d’ogni genere. Le vittime erano uomini e donne, bambini e vecchi, senza che distinzioni d’età e di sesso potessero significare granché, anche se per i maschi in età di leva era quasi scontato venire trucidati il prima possibile. A commettere queste violenze erano gli uomini dell’Organizzazione speciale, i gruppi paramilitari organizzati dal CUP, i soldati dell’esercito regolare, le bande di criminali liberati all’inizio del conflitto per compiere ogni sorta di violenza, membri di clan curdi o di altre popolazioni musulmane non turche (circassi, ceceni, tatari) che speravano di ottenere vantaggi materiali, riconoscimenti e garanzie da parte ottomana.
I dirigenti del CUP e i triumviri a capo del governo (Talât, Enver e Cemal) insistono nel cercare di dare alla deportazione una legittimità giuridica, agli occhi delle autorità locali e dei funzionari intermedi coinvolti che vengono rimossi – e in qualche caso anche fucilati – se manifestano qualche obiezione o perplessità. Un’altra misura rilevante a determinare il destino di molti armeni fu la decisione di stabilire delle quote fisse di popolazione ammesse a vivere in ogni provincia. Gli armeni delle province occidentali, così venne stabilito nell’agosto 1915, non potevano superare il 5% complessivo della popolazione, mentre all’inizio di luglio si decise che quelli insediati nel deserto siriano e iracheno dovevano costituire meno del 10% dell’intera popolazione. È quindi molto probabile che la nuova fase di massacri che colpì, nella prima metà del 1916, proprio i campi di detenzione e il numero dei profughi quasi giunti a destinazione, fosse determinato dalla volontà di rispettare questa «legge del 10 per cento», applicandola burocraticamente e sadicamente su persone che avevano già sofferto per giorni e per mesi le più terribili atrocità.
Gli armeni che sono sopravvissuti alle deportazioni e si ritrovano, nell’autunno 1915, insediati nei deserti della Siria, sono circa ottocentomila, poco più del 40% degli armeni che vivevano nell’impero ottomano. Questo vuol dire che ne restano più o meno un milione e centomila, di cui si erano salvati, perché riusciti a fuggire o perché non erano stati deportati, circa in trecentomila. Coloro che sono già stati uccisi o che sono morti nel corso delle deportazioni verso la fine del 1915 sono quindi già ottocentomila armeni. Adesso, con l’attuazione della norma del 10%, nel corso del 1916 ne vengono massacrati quasi mezzo milione, lasciando vivi non più di trecentomila armeni tra quanti erano giunti nei campi e vi si erano insediati al termine della deportazione.
A cosa si doveva la scelta dei dirigenti ottomani di «liberarsi» definitivamente degli armeni che vivevano da secoli dentro l’impero? L’intenzione di sbarazzarsi degli armeni in Anatolia era già parte da tempo di un progetto demografico e di ingegneria sociale che i Giovani Turchi avevano reso esplicito quando, al suo interno, aveva prevalso la fazione nazionalista più accesa, fautrice della costruzione di un’identità nazionale turca che, per affermarsi, doveva stigmatizzare come «estranee» innanzitutto le popolazioni non musulmane ma considerare come cittadini di grado inferiore anche i musulmani non turchi.
L’idea di «turchizzare» l’Anatolia divenne un obiettivo condiviso: si trattava di insediarvi i turchi immigrati dai territori ottomani che erano stati perduti nel corso delle ultime guerre e di spingere gli armeni ad abbandonare le loro terre e le loro case.
Le sconfitte della prima guerra balcanica segnarono al tempo stesso un momento di radicalizzazione e di sconforto, di paura e di desiderio di vendetta, che costituì il terreno propizio per il colpo di stato del triumvirato e per la definitiva vittoria del nazionalismo più acceso e radicale, proprio mentre riprendeva massicciamente l’immigrazione turca dai territori appena perduti.
La paura che l’avanzata russa potesse instaurare di fatto in Anatolia orientale – e in modo particolare nelle sei province dove maggiore era la presenza armena – quella «riforma» che le grandi potenze avevano tardivamente imposto nel febbraio 1914 alla Sublime Porta, e che doveva garantire una sempre maggiore autonomia agli armeni, spinse a trasformare l’intenzione di omogeneizzare etnicamente l’Anatolia nel progetto di deportazione e annientamento degli armeni che vi abitavano.
È quindi nel nuovo contesto creato dalla guerra mondiale che il progetto messo a punto qualche anno prima, di rendere omogenea l’Anatolia come regione turca, espellendone le minoranze (e in primo luogo la più numerosa, quella armena), si trasforma nel giro di pochi mesi in un progetto di annientamento di un popolo, in una strategia genocidaria.
*Marcello Flores è professore di
Storia comparata e Storia
dei diritti umani nell'Università di Siena
(il testo è stato pubblicato da SENTIRE 19 cartaceo nel 2015)
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