Intervista a Luciano Civettini
di Maurizio Scudiero* - critico d’arte
(*su gentile concessione dell'autore - 2007) - Conosco Civettini da oltre quindici anni, dalla sua prima personale. Ha fatto molta strada, con mostre in Italia e Germania, cataloghi, libri illustrati ed altro. Poi, ad un certo punto, anche per lui è arrivata la tipica “crisi”, di crescita: «Chi sono, dove sono, dove vado ?». Interrogativi rituali di un artista giunto ad uno dei tanti bivi della carriera e della vita. È l’incontro-scontro con il duro mondo
del “mercato”, un mondo non meritocratico: “essere bravo” sembra irrilevante se non si abbraccia la filosofia dei famosi “furbetti dell’art-system”. Cosa che Civettini non ha mai fatto, né farà mai. Ogni volta che c’è da azzerare tutto e ripartire con entusiasmo, si può e si deve parlare di “new deal”, qualunque ne sia l’ambito. Anche in arte. E dunque chi meglio di lui, di Civettini, può spiegarci alcuni aspetti di queste sue nuove opere, qui presentate per la prima volta? Ho scelto la formula dell’intervista, del “botta e risposta”, portandolo immediatamente sul terreno di una sorta di “auto-analisi”.
Aprendosi completamente, ci svela questa sua nuova, intrigante, pittura che definisce “New Pop”.
Perché New Pop?
A parte che il termine “Pop” l’ho utilizzato per non usare un termine abusato come “Folk”, mi piaceva perché è molto vicino al linguaggio comune della strada. Perché gli elementi che uso si prestano come rivestimenti di superficie, decorativi, e post-romantici.
Sono popolari. Quindi Pop !
Quando si è avviato il tuo New Pop?
All’inizio del 2007 quando visitai, virtualmente e con riviste, alcuni spazi underground di artisti di Los Angeles e di altre città americane. Soprattutto artisti che provengono dall’area dei “writers” (post-graffitari) e fra questi quelli che mi hanno colpito di più sono stati David Ratcliff, Tim McCornick, e due giapponesi-californiani di nome Makiko Kudo e Mashiko Kuwahara. Tra i luoghi underground che ho visto il più interessante era Cannibal Flower.
Quali sono stati i fattori che hanno stimolato questo tuo cambiamento?
Ero fermo. Da un anno non dipingevo più, ed era difficile proporre cose nuove. Poi per caso, surfando nella rete, sono capitato su questi siti dove ho avuto nuovi stimoli per iniziare il mio lavoro con un nuovo linguaggio. La collaborazione con la galleria è stata sostanziale in quanto mi garantiva la tranquillità di impostare
un lavoro a lungo termine.
Perché nelle tue opere i bambini sono spesso macrocefali, e pure strabici?
Penso che sia per evidenziare due elementi “importantissimi” e indispensabili per questo mio nuovo lavoro di pittura, e cioè la “vista”, ovviamente, e poi il “cervello” che elabora quanto la vista gli riferisce. Ma soprattutto è anche un riferimento alla vista dei neonati, cioè alla loro visione deformata, di come loro “ci” vedono. È in sostanza un punto di vista “diverso”.
Luciano Civettini alla Galleria Contenpo di Pergine (foto Dora Bulart)
E perché a volte, pur essendo riconoscibilmente bambini, li dipingi già sessualmente ben formati, specie nei disegni?
Per lo stesso motivo: la forma dell’adulto-bambino è un’allegoria dell’artista stesso, cioè di un adulto che spesso vede “ancora” con gli occhi disincantati del bambino. Insomma questi bambini in realtà sono, o dovrebbero essere, degli adulti che hanno conservato ancora la purezza di sentimenti e di visione dei bambini.
E la bimba sulla barchetta?
Rappresenta un elemento di solitudine e incomunicabilità esistenziale tipica dell’umanità odierna. Ma sempre con quella “leggerezza” che spero la renda più poetica che depressiva.
Che ruolo hanno alcuni personaggi ricorrenti come il “bianconiglio” (che a volte è nero), Alice, il cervo di pezza?
Li utilizzo per creare un effetto “straniante”, cioè per spostare l’attenzione, anche nelle situazioni più drammatiche. Voglio dire che è sicuramente “positivo” il pensare a salvare il proprio giocattolo
di pezza mentre il mondo sta per crollare. È quindi un messaggio di speranza, l’idea di un futuro “comunque possibile”, che continua, piuttosto che una sensazione di fine imminente con la bomba
che incombe.
Icaro e l’Arcadia?
Icaro deriva dalla lettura e dalla sensazione dei quadri del periodo arcadico, e appunto l’Arcadia è uno dei temi centrali di questo mio nuovo corso, e dal quale tutto è scaturito. Questo perché la mia visione dei quadri dell’Arcadia è quella di opere completamente slegate dalla realtà contingente del periodo storico durante il quale sono state realizzate: è questo che le rende attuali. Sono come la macchina del tempo di Wells. Hanno sempre anticipato periodi storici di decadenza.
Perché c’è questa ossessione della “bomba”?
In primis perché sono nato negli anni ‘70, quando della bomba si parlava ancora come una minaccia incombente. Il film “The Day After” è infatti dei primi anni ‘80. Quindi è una mia paura esistenziale giovanile di fondo.
Che rapporto c’è tra la Natura e la Bomba, nel tuo lavoro?
La bomba è la paura. La natura con la bomba certo cambia, eccome, ma forse continua. Quindi è la speranza.
Poi c’è Il tema ricorrente della guerra: “War is over”, la guerra è finita, ma anche “Funny war”. Come fa una guerra ad essere “funny”, divertente?
È sempre la visione del bimbo, per il quale la guerra è comunque un gioco, e soprattutto per l’adulto, perché ormai è divenuta uno show mediatico, vista in diretta alla tv, come la prima guerra mediatica in assoluto, quella del golfo all’inizio degli anni ’90. Dunque è una sorta di video-games, giocato al sicuro nelle nostre case.
E la “Real Pop War”…come fa una guerra ad essere pure “Pop”?
È un gioco, perché ormai la guerra è “funny”, mediatica, e per questo è anche Pop: è divenuta in sostanza linguaggio popo-olare. Quasi una soap-opera collaterale, e continua, alla vita reale. I telegiornali ne sono infarciti. C’è sempre una guerra nel mondo da portare in salotto. E un po’ alla volta ti assuefai. Quindi anche la guerra diviene un’icona della contemporaneità, cioè Pop.
Alcuni temi sanno un po’ di slogan sessantottino, come il “Peace” sopra il fungo atomico. Perché questo ripescaggio?
Anche questa è una mia visione personale dei fatti e del tempo: fa parte della mia formazione culturale. Quando si è cresciuti con slogan e immagini sempre davanti agli occhi, poi inevitabilmente
ti rimangono dentro: un po’ come il manifesto del “Che”, tuttora un’icona di una gioventù che non lo ha, poi, “vissuto”.
Un’ultima domanda. Ma ti senti proprio così vicino a questi underground americani che sembrano così “freddi”, così “mentali”?
Pur ammirandola la mia formazione è comunque europea, ben salda ad una visione tutto sommato post-romantica, dove il colore non è solo riempitivo, ma è anche emozione. Dunque quel riferimento mi è servito, ma il mio lavoro, ora, è un altro.
INTERVISTA A LUCIANO CIVETTINI
by Maurizio Scudiero - 3 dicembre 2007
L’intervista integrale è pubblicata nel catalogo pubblicato
in occasione della mostra da Spazio 53,
Corso Rosmini, Rovereto (Ed. Nicolodi)
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