Kendell Geers, l'africano bianco
''Il Sudafrica? L'ho lasciato perché violento, molto peggio di quando c’era l’apartheid''
''Il Sudafrica? L'ho lasciato perché violento, molto peggio di quando c’era l’apartheid''. Kendell Geers, l'africano bianco è il guerriero mite che ha legato gran parte del suo lavoro al tema dell’apartheid in “Irrespektiv”, parla da filosofo dell’arte, sempre in prima linea. Denunciando le follie dell’apartheid che ha visto da sudafricano, è giunto a modificare la propria data di nascita, per farla coincidere con il maggio 1968.
“Siamo metà animali e metà uomini e francamente non so dire quale delle sue dimensioni sia la migliore” affermaKendell Geers che accompagna da sempre giornale SENTIRE. In lui individuiamo la forza di un contro-pensiero (e il mood per un giornalismo di approfondimento che portiamo avanti da 12 anni).
Molto del suo lavoro parte dalle parole, dalla loro area semantica dalle intersezioni che le fanno virare verso l'opposto di sé stesse, come 'irrespektiv' un ironica parodia del termine “retrospettiva” a metà tra denuncia politica e provocante irriverenza. “Irrespektiv” (mostra che nel 2010 portò al Mart di Rovereto), proponeva una riflessione profonda sul tema della segregazione razziale. La mostra curata da Jérôme Sans, era una coproduzione europea, che associava musei e istituzioni artistiche di Belgio, Inghilterra, Francia e appunto Italia.
Con i suoi lavori, Kendell Geers esplora i limiti e i confini geografici, linguistici, politici, sociali, sessuali e psicologici dell’uomo. L’artista rivendica, infatti, la necessità di prendere posizione rispetto al mondo in cui viviamo. Da questo atteggiamento critico – che evita però ogni visione manichea della realtà – nasce un’arte che coinvolge totalmente l’artista a livello personale, e trascina il pubblico all’interno dell’opera, rendendolo a tutti gli effetti un elemento della creazione artistica. Ma soprattutto lo trasforma in un cittadino consapevole.
Pochi sanno (ma lui te lo spiega con la sua arte), che c'è un prodotto che il Sudafrica esporta in tutto il mondo, non ha competitors ed è garantito in quanto 'molto' collaudato: è la specialissima rete antifuga che squarcia la pelle al tentativo di superarla. “Il Sudafrica l’ha fornita a Guantanamo e alla Palestina dopo averla usata negli anni durissimi dell’apartheid” spiega Kendell Geers.
L’importanza delle istanze etiche che l’artista porta avanti risiede in una ricerca sul linguaggio. Lui dice di esserne stregato: è scelta, atteggiamento, equivoco, ambiguità. Anziché unire, divide. “Proprio come accadde con la Torre di Babele che attraverso il mito dimostra il tentativo dell’uomo di potersi appropriare della divinità: il mescolamento che ne consegue deve dirci una cosa e cioè che il linguaggio è divino” afferma Geers che con le parole gioca per aiutare a ritrovare la consapevolezza sul grado di insensibilità cui siamo arrivati e suggerire un pista da seguire.
“Dobbiamo rompere il mondo, i media ci espongono al non-sense, alla violenza gratuita, la moralità imprigiona e siamo schiavi delle abitudini, siamo prigionieri del tempo e incapaci di vedere le vere emergenze: i soldi per salvare le banche si sono trovati, non si trovano invece per salvare il mondo” afferma Geers intercalando le constatazioni con le spiegazioni delle opere. “Questo è il mio autoritratto” aveva detto indicando il coccio di bottiglia, tagliato sul collo, di una birra Heineken. “Vedete? C’è scritto importato e io sono un sudafricano importato in Belgio”. L’artista vive infatti a Bruxelles.
Nel labirinto che allestì al Mart nel 2009 con la rete dell’apartheid, volle indicare la prigione nella quale noi stessi ci richiudiamo. Gli idoli allineati all’interno di una stanza chiusa e dentro una serie di scaffali che somigliano quasi a una gabbia richiamano la Kaaba dell’Islam che racchiude la pietra di Maometto e dicono i sacro e il profano della vita. L’artista li ha messi insieme dopo averli trovati in un curioso mercato di Bruxelles.
Quanto al suo paese di origine la cesura è netta. “Ho lasciato il Sudafrica perché è violento e oggi si vive molto peggio di quando c’era l’apartheid in uno stato di Polizia”. Solo che nessuno più ne parla. E questo dice qualcosa di quanto siamo interessati ai nostri simili.
foto: per gentile concessione @KendellGeers
Autore: Corona Perer
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