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David Grossman: ''Israele sta cadendo nell'abisso''

''...governo in uno stato di paralisi incosciente''

"Israele sta cadendo nell'abisso" dice David Grossman scrittore israeliano, che ha consegnato alle colonne del  New York Times qualche pensiero sul genocidio che il popolo palestiese sta subendo per mano di Netanyahu.

E' un pensiero che aiuta a capire lo stato d'animo israeliano. L'intervento pubblicato sul NYT lo scorso 1 marzo,  parte ovviamente dal dolore dell'attacco perpetrato da Hamas. Grossman cita la vulgata: gli stupri  di massa di Hamas (è notorio che questa è una notizia falsa e che la giornalista straniera che l'ha inventata si è pure scusata), e mentre non si sa ancora il numero preciso degli ostaggi (ma lui fa il numero di 146) la contabilità dei morti palestinesi è tristemente nota: ormai 35.000 e non si contano feriti, menomazioni, da ultimo le morti per fame e consunzione.

Lo scrittore afferma di aver parlato con persone ebree che vivono fuori da Israele e che si sono sentite vulnerabili come entità ''statuale''. Lo choc deriva dall'attacco subito: nulla di nuovo se detto da israeliani. Lo Stato viene anzittutto.

''Mentre l'esercito iniziava a contrattaccare - scrive Grossman -  la società civile si stava già arruolando in massa nelle operazioni di soccorso e logistiche, con molte migliaia di cittadini che si offrivano volontari per fare ciò che il governo avrebbe dovuto fare se non fosse stato in uno stato di paralisi incosciente''.

Il dettaglio qui è interessate: ''un governo in uno stato di paralisi incosciente'' afferma lo scrittore.

Grossman scrive (è lui stesso ad annotarlo) mentre i dati del Ministero della Sanità di Gaza parlano di 30.000 palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre. Ma nel citarli aferma che tale Ministero è in mano ad Hamas: come dire ''numeri da verificare''. Tra queste vittime ricorda i molti bambini, donne e civili, molti dei quali non erano membri di Hamas e non hanno avuto alcun ruolo nel ciclo della guerra. Ma non pare ci sia spazio per dar fiato al dolore universale, come ci si aspetterrebbe dalla sua penna, bensì ''...alla paura, lo shock, la furia, il dolore, l'umiliazione e la vendetta, le energie mentali di un'intera nazione''. La sua.

E scrive: ''non possiamo mettere da parte gli aggressori di Gaza, assassini che hanno filmato i loro crimini e li hanno trasmessi in diretta alle famiglie delle vittime, stupri, bambini uccisi, famiglie bruciate vive. E gli ostaggi. Quegli israeliani che da 146 giorni sono tenuti nei tunnel, alcuni forse in gabbia. Sono bambini e anziani, donne e uomini, alcuni dei quali sono malati e forse stanno morendo per l'insufficienza di ossigeno e di medicine e per la mancanza di speranza...'' Da notare che a Gaza si sta morendo di fame e di sete. E che quelli che son riusciti a fuggire sono ammassati dentro un recinto alle porte dell'Egitto che sta per essere attaccato dal governo Netanyhau.

Grossman poi ricorda che prima del 7 ottobre la società israeliana stava manifestando cntro il governo di Benjamin Netanyahu per i provvedimenti legislativi volti a indebolire fortemente l'autorità della Corte Suprema, infliggendo così un colpo mortale al carattere democratico di Israele. ''Centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza ogni settimana, tutti quei mesi fa, per protestare contro il piano del governo. La destra israeliana sosteneva il governo. L'intera nazione stava diventando sempre più polarizzata. Quella che una volta era una legittima discussione ideologica tra destra e sinistra si era evoluta in uno spettacolo di profondo odio tra le varie tribù. Il discorso pubblico era diventato violento e tossico. Attualmente, temo che Israele sia più una fortezza che una casa. Non offre né sicurezza né agio, e i miei vicini nutrono molti dubbi e richieste sulle sue stanze e sulle sue mura e, in alcuni casi, sulla sua stessa esistenza. In quel terribile sabato nero, è emerso che non solo Israele è ancora lontano dall'essere una casa nel senso pieno del termine, ma non sa nemmeno come essere una vera fortezza''.

E poi lo sguardo dello scrittore va agli arruolamenti volontari. ''Gli israeliani sono giustamente orgogliosi del modo rapido ed efficiente in cui si radunano per offrire sostegno reciproco quando il Paese è minacciato, sia da una pandemia come la Covid-19 che da una guerra. In tutto il mondo, i soldati della riserva sono saliti sugli aerei per raggiungere i loro compagni già chiamati alle armi. Andavano "a proteggere la nostra casa", come dicevano spesso nelle interviste. C'era qualcosa di commovente in questa storia unica: questi giovani uomini e donne si sono precipitati al fronte dai confini del mondo per proteggere i loro genitori e nonni. Ed erano pronti a dare la vita. Gli israeliani della mia generazione, che hanno vissuto molte guerre, si stanno già chiedendo perché questa unità emerge solo nei momenti di crisi? Perché solo le minacce e i pericoli ci rendono coesi e fanno emergere il meglio di noi, e ci sottraggono anche alla nostra strana attrazione per l'autodistruzione, per la distruzione della nostra stessa casa?''. Verrebbe da rispondere: perchè è naturale.

Ma Grossman deve introdurre il mantra del ''diritto ad esistere''. E così parla della condizione ebraica: sentirsi sempre una nazione perseguitata e non protetta. ''Una nazione che, nonostante i suoi enormi successi in tanti campi, è ancora, nel profondo, una nazione di rifugiati, permeata dalla prospettiva di essere sradicata anche dopo quasi 76 anni di sovranità. Oggi è più chiaro che mai che dovremo sempre vigilare su questa casa fragile e penetrabile. È stato chiarito quanto sia radicato l'odio di questa nazione''.

E la Palestina? I morti innocenti? Il recinto in cui vive da decenni? Le aggressioni dei coloni ad Hebron dove un'intera città viene quotidiamanente umiliata? E che dire di quei politici israeliani che parlano di soluzione finale, di allagare i tunnel per ''prendere i palestinesi come topi'' ? Non ha nulla da dire il grande Grossman?

Che delusione: la sua riflessione arriva a parlare di due popoli martoriati ma per chiudere il tutto in poche righe. Queste: ''...il trauma di diventare rifugiati è fondamentale e primordiale sia per gli israeliani che per i palestinesi, eppure nessuna delle due parti è in grado di guardare alla tragedia dell'altra con un briciolo di comprensione, per non parlare di compassione. Un altro fenomeno vergognoso è emerso a seguito della guerra: Israele è il Paese al mondo di cui si chiede più apertamente l'eliminazione.''

E i discorso prende subito il largo: i campus delle università più rispettate, i social media e nelle moschee di tutto il mondo, dove il diritto all'esistenza di Israele viene spesso contestato. E qui lo stupore diventa vero sconcerto: Grossman cede al piagnisteo. ''....Quando Saddam Hussein uccise migliaia di curdi con armi chimiche, non ci furono appelli a demolire l'Iraq, a cancellarlo dalla faccia della terra. Solo quando si tratta di Israele è accettabile chiedere pubblicamente l'eliminazione di uno Stato. È nauseante pensare che questo odio omicida sia rivolto esclusivamente a un popolo che meno di un secolo fa era stato quasi sradicato''.

Poi si capisce che deve chiudere il raccontino e allora approda a qualche sincera domanda: "Chi saremo - israeliani e palestinesi - quando questa lunga e crudele guerra avrà fine? Non solo il ricordo delle atrocità inflitte l'uno all'altro ci separerà per molti anni, ma anche, come è chiaro a tutti noi, non appena Hamas ne avrà la possibilità, metterà rapidamente in atto l'obiettivo chiaramente indicato nel suo statuto originale: il dovere religioso di distruggere Israele.
Come possiamo quindi firmare un trattato di pace con un tale nemico? Eppure, che scelta abbiamo?
I palestinesi faranno i conti da soli. Come israeliano mi chiedo che tipo di persone saremo quando la guerra finirà. Dove indirizzeremo il nostro senso di colpa - se saremo abbastanza coraggiosi da provarlo - per ciò che abbiamo inflitto a palestinesi innocenti? Per le migliaia di bambini che abbiamo ucciso. Per le famiglie che abbiamo distrutto''.

E ancora. ''Quale prezzo pagheremo per vivere in costante vigilanza e sospetto, in perenne paura? Chi di noi deciderà che non vuole - o non può - vivere la vita di un eterno soldato, di uno spartano? Chi resterà qui in Israele e quelli che resteranno saranno i più estremi, i più fanaticamente religiosi, nazionalisti, razzisti? Siamo condannati a guardare, paralizzati, mentre l'audacia, la creatività, l'unicità di Israele viene gradualmente assorbita nella tragica ferita dell'ebraismo?Queste domande probabilmente accompagneranno Israele per anni. Esiste, tuttavia, la possibilità che una realtà radicalmente diversa sorga per contrastarle. Forse il riconoscimento che questa guerra non può essere vinta e, inoltre, che non possiamo sostenere l'occupazione all'infinito, costringerà entrambe le parti ad accettare una soluzione a due Stati che, nonostante i suoi svantaggi e i suoi rischi (primo fra tutti, che Hamas prenda il controllo della Palestina in un'elezione democratica), è ancora l'unica praticabile?''.

Infine un invito a fare diplomazia. ''I Paesi coinvolti nel conflitto non vedono che israeliani e palestinesi non sono più in grado di salvarsi da soli? I prossimi mesi determineranno il destino di due popoli. Scopriremo se il conflitto che dura da più di un secolo è maturo per una risoluzione ragionevole, morale e umana.
È tragico che ciò avvenga - se davvero avverrà - non per speranza ed entusiasmo, ma per stanchezza e disperazione. D'altra parte, questo è lo stato d'animo che spesso porta i nemici a riconciliarsi, e oggi è tutto ciò che possiamo sperare''.

Come sono lontani i tempi in cui conquistava i suoi lettori per la semplicità e la bellezza dei sentimenti che narrava.  "Solo conoscendo l'altro non possiamo più rinnegarlo o fare come se non esistesse lui, la sua storia, la sua sofferenza. E saremo anche più indulgenti verso i suoi errori" diceva. Spiegava che Palestinesi e Israeliani non sono nè troppo diversi tra loro  nè troppo uguali? "Sono simili, molto più simili di quanto si pensi". Sono due popoli che si cercano, si sforzano di convivere ma sono i governi a non fare... l'unica cosa da fare. "Guardarsi negli occhi e dialogare" dice lo scrittore.

"La pace è un obiettivo infinito, mai compiuta del tutto" ci disse lo scrittore, ex-attore radiofonico, romanziere di successo, saggista, creativo, quando lo avevamo incontrato a Riva del Garda per una lunga intervista.
Gli avevamo chiesto di immaginarsi primo ministro: quale sarebbe la prima cosa da fare? Lui rispose: "Preferirei non esserlo ho di meglio da fare''. Ci aspettavamo rispondesse: la Pace.
Allora gli avevamo ricordato il titolo di un suo programma tv degli esordi: si intitolava "Stutz" cioè "può accadere".  Gli abbiamo quindi chiesto cosa deve accadere perché Israele conquisti la pace e lui ci ha risposto "Stranamente siamo sempre molto vicini e molto distanti dalla pace. Ma la pace verrà dalle donne: loro sono attaccate alla vita, al sangue, ai figli".



Leggi la nostra intervista realizzata a Riva del Garda nel 2007 > qui

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