''Occidente'' di Ferdinando Camon (ed.Apogeo)
''È un romanzo sul quale mi sono martirizzato'' afferma lo scrittore.
La stesura definitiva di "Occidente"di Ferdinando Camon (130 pagine edite da Apogeo) ha impegnato l'autore a lungo tempo. ''È un romanzo sul quale mi sono martirizzato'' afferma lo scrittore. E in questo testo, che fa da prefazione, spiega perchè.
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di Ferdinando Camon - ''Occidente'' è, in assoluto, il libro che m'è costato più caro, moralmente parlando. Mentre lo scrivevo ricevevo interviste, e con le interviste anche minacce. Mi mettevano piccole bare di cartone nella cassetta delle lettere. Versarono dello zucchero nell’olio del motore della mia auto, parcheggiata in garage, e il motore si fuse.
Mi telefonavano alle 2, alle 3. Ho avuto la casa vigilata dalla polizia giorno e notte, per mesi: alla mattina aprivo la porta e trovavo due poliziotti, se una scuola m’invitava a tenere una conferenza, andavo là e la trovavo circondata da carabinieri. Mia moglie aveva paura per i figli, e non li lasciava più andare a giocare a calcio, ma loro uscivano di nascosto.
La sera in cui doveva andare in onda una mia intervista le minacce furono così fitte che scappai dalla mia città, con tutta la famiglia. Trovai un albergo disposto ad ospitarci, a San Vito di Cadore, ma si era in ottobre, fuori stagione, faceva un freddo boia e le stanze non erano riscaldate. Mi presi una tonsillite e passai una settimana a letto, con la febbre alta. Ma questo libro lo volevo scrivere. Lo dovevo scrivere. Avevo fretta.
Ne anticipai una stesura non definitiva. L'avvocatura dello Stato, nell'arringa con cui chiedeva la condanna di una cellula nera per la strage di Bologna (il più grande atto di terrorismo in Italia, 85 morti e 200 feriti nella stazione ferroviaria), utilizzava undici pagine di questa stesura, scoperte nel covo dei terroristi, con le quali la cellula spiegava ai propri militanti perché, in nome di che cosa, con quale diritto, andava compiuta la strage, qual era il bene che scavalcava trecento vite umane. Quando ho avuto in mano il testo dell'accusa e poi la sentenza di condanna, ho dubitato dell'innocenza di scrivere romanzi. Perché quelle undici pagine, con le quali i terroristi cercavano di spiegarsi a sé stessi e di comprendersi, contenevano dunque il "movente" della strage.
Sono le pagine comprese nella parte intitolata "Organizzazione", dal periodo che dice: «Bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi, e i treni, e le strade siano insicure: bisogna ripristinare il terrore dei pirati, il terrore dei briganti, la paralisi della circolazione», fino alla conclusione: «Noi dobbiamo dare al sistema un colpo tale che ogni coscienza si rimetta a noi con tutta la docilità, con tutta la gratitudine per qualunque cosa faremo di essa. Occorre che il nostro gesto sia così chiaro, da far nascere in tutta la popolazione inerme e inginocchiata due sole risposte e nessun dubbio: "Sono loro!" e "Finalmente!"».
Occidente descrive in realtà il lavoro ideologico che porta a compiere una strage in un asilo. Per anni avevo tenuto tra le mie carte un ritaglio di giornale che dava notizia di una bomba in un asilo. M'interessava il viaggio dei terroristi verso la conquista e l'applicazione del "diritto-dovere di strage". Credevo d'interpretarli, e cioè che questo diritto-dovere fosse già chiaro dentro di loro.
Non supponevo che dentro di loro fosse chiara la conclusione, e cioè che le stragi andavano compiute e che, più vaste erano, più erano efficaci, e, più innocente era il materiale che sacrificavano, più erano giuste; ma che l'itinerario conoscitivo ed etico, insomma il ponte che portava a questa conclusione, non fosse stato costruito.
La mia intenzione era di spiegare il "diritto-dovere di strage" alle vittime e alla gente come me. Non credevo che avessero bisogno di spiegazione gli stragisti.
Quando il libro diventò un film della RAI, un personaggio di rilievo nelle cronache del terrorismo nero credette di riconoscersi nel protagonista che mette la bomba; e citò in tribunale la televisione e il regista. Ma fu condannato all'ergastolo, perdette i diritti civili, e il processo non ebbe luogo. Successivamente assolto, concordò con me un incontro in cui io avrei esposto le mie tesi (la connessione tra i suoi discorsi, i suoi libri, e le stragi che avvenivano in Italia) e lui avrebbe (così supponevo, sbagliando) sostenuto la propria innocenza.
Non pensavo che avrebbe rivendicato con orgoglio la propria colpevolezza come una superiore, o suprema, innocenza. In quel momento era agli arresti domiciliari, a mille chilometri da me. Prenotai un letto in un treno per la notte dell'andata e un treno per la notte successiva, del ritorno. La giornata la trascorsi con lui, in un interminabile colloquio in una casa vuota, semibuia, con le imposte accostate. Io seduto, lui sempre in piedi (è noto come colui che non si siede mai).
Come lui voleva, ho poi pubblicato quella nostra conversazione, con una premessa da cui estraggo adesso qualche pensiero. Esecuzione o non esecuzione della strage, condanna e assoluzione sono momenti d'interesse giuridico: determinante per l'uomo; insignificante per il personaggio. Il personaggio è costruito sulle idee e sui concetti: è una loro incarnazione. Se un interrogativo di colpa o d'innocenza al suo riguardo è possibile, non può trattarsi che di colpa o d'innocenza di una morale, quindi in nome di un'altra morale.
Il mio personaggio intuiva con lucidità che chi lo interrogava partiva da una premessa: «Tu sei colpevole», e perciò costruiva le risposte in modo da tenersi libero di affermare: «Qualunque cosa abbia fatto, io sono innocente». In fondo, la ragione per cui l'uomo si dissocia dal personaggio non è l'innocenza o la colpevolezza, ma la coscienza dell'innocenza o della colpevolezza. Coscienza della quale afferma di essere, per quanto lo riguarda, l'unico depositario, sottratto ad ogni giudizio esterno.
Si trattava per lui di una conquista anti-cristiana, e quindi di una liberazione interiore. Ci fu un momento, a conclusione dell'incontro, in cui egli disse: «È innocente non chi è incapace di peccare, ma chi pecca senza rimorsi». Non so se sbaglio giuridicamente, ma eticamente queste parole hanno sempre significato per me: «Ho fatto la strage che pensate, ma possiedo un sistema morale che mi assolve».
Mentre il film era in lavorazione e la troupe lavorava nella mia città, le minacce e i sabotaggi erano tali e tanti che il centinaio di attori dovette trasferirsi in blocco in un'altra città. A me venivano recapitate, ogni giorno, lettere d’avvertimento. Era il tempo delle gambizzazioni. In genere, coloro che venivano gambizzati subivano l'attentato per strada, mentre camminavano, in corrispondenza di qualche curva: giravano ad angolo retto, e sul nuovo lato venivano accostati, di fronte o di spalle, da chi gli sparava. Il mio giornalaio stava dopo una curva. Svoltando a quella curva, facevo un mezzo giro su me stesso, per controllare davanti e dietro di me. È un tic che non si è ancora dissolto, nonostante il passare degli anni.
I gruppi terroristici avevano un funzionamento in parte pubblico. La cellula a cui apparteneva il terrorista mio personaggio aveva una libreria, aperta solo di giovedì, e solo di notte, dalle ventidue alle ventiquattro. Tre volte mi son recato ad acquistare materiale, ma poiché prima di riceverlo dovevo sottostare ad un interrogatorio, nel quale davo generalità false, dopo il terzo acquisto preferii non insistere. A vendere ai clienti il materiale librario, sul mito della razza e sulla necessità di ricollocare la razza superiore alla guida del mondo, era un paralitico su una sedia a rotelle.
Altri gruppi rivoluzionari si davano appuntamento, con informazione semipubblica, in qualche luogo accessibile, addirittura in aule universitarie. Mi recavo in quell'aula e lì non c'era l'incontro, c'era qualcuno che faceva domande e, se lo riteneva opportuno, indirizzava ad un altro posto. Neanche in questo secondo posto c'era l'incontro, ma c'era qualcuno che di nuovo faceva domande e, se lo riteneva opportuno, indirizzava a un terzo posto. E così via. In questo modo i gruppi rivoluzionari avevano le foglie al sole, ma le radici sottoterra.
Occidente fu scritto tra queste ricognizioni, sotto queste minacce e ricatti. Facevo l’insegnante, la polizia mi scortava a scuola e a casa. Mi mettevo a scrivere, suonava il telefono e mi minacciavano di morte. Come vivi così scrivi, la mia vita era disturbata e la scrittura ne risentiva. Occidente aveva bisogno di purgarsi di quei disturbi. Finita quell'epoca e sparite quelle minacce, oggi mi è possibile recuperare il nucleo centrale del romanzo, che consiste nell'inseguire il "diritto alla strage" che un'élite di terroristi rivendica a sé per il bene di tutti.
Lo presento dunque, così depurato, in un momento in cui il "diritto alla strage" non è più un fenomeno di decadenza dell'Occidente, ma si allarga, assumendo nuovi connotati e dandosi nuove origini, anche divine, in altre culture, che lo esercitano contro di noi. Quando pensavo e scrivevo il primo abbozzo di Occidente, il "diritto alla strage" spiegava una piccola frangia di una società occidentale decadente. Ora che consegno questa stesura definitiva, spiega buona parte della storia mondiale che stiamo attraversando.
Ferdinando Camon 2022
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