Il conflitto Israele-Palestina
di padre Ibrahim Faltas* - La spirale di violenza deve risvegliare in tutti noi una ferma condanna
di Ibrahim Faltas* - Dopo l’ultimo conflitto di Gaza dell’estate del 2014, nessuno ha più parlato o riacceso i riflettori delle telecamere sulla situazione che si è vissuta e si vive in Terra Santa, tra israeliani e palestinesi.
La calda estate del 2014, ha lasciato gravi conseguenze al paese, poiché ha messo in ginocchio l’economia palestinese, in particolare per la comunità cristiana, a causa della mancanza di turisti, e dei pellegrini, che hanno paura a venire in Terra Santa.
Nel silenzio della comunità internazionale, sono aumentati, nel frattempo, le costruzioni di numerosi insediamenti, che hanno visto aumentare anche la presenza dei coloni, e contestualmente anche le restrizioni e le privazioni nei confronti dei palestinesi, indifferentemente se musulmani o cristiani.
Gli insediamenti soffocano i quartieri o i villaggi della comunità palestinese, costretta a varcare check point, con attese interminabili ai controlli da parte dei militari israeliani, anche semplicemente per andare a lavoro, recarsi in università, o in ospedale.
Ancora più grave la situazione nella città Santa, la città di Gerusalemme, dove lentamente, il governo d’Israele ha creato delle zone “ghetto” per gli arabi che vi risiedono, e restringendo per molti fedeli musulmani l’accesso alla Spianata delle Moschee, il loro luogo sacro, anche per i più laici. Una libertà di culto blindata.
In questa situazione, che perdura da molti anni, in questi giorni è esplosa la rabbia della gioventù palestinese, di cui le cronache di tutti i giornali del mondo nel parlano definendola "una terza intifada". Non è così.
Non credo che possiamo parlare di Intifada. Questi giovani, che attaccano con un coltello gruppi di soldati o di polizia, compiono questi atti individualmente, non in gruppi organizzati o guidati da un leader.
Nella prima Intifada, Yasser Arafat, era a capo dell’organizzazione per la liberazione della Palestina, a guida di una rivolta organizzata e che vide la sua conclusione con il famoso accordo di Oslo, dove per la prima volta, i due paesi, Israele e Palestina, si riconoscevano come legittimi interlocutori. L’accordo firmato da Rabin e Arafat garantiva al governo delle autorità palestinesi numerose città e villaggi a Gaza e nella Cisigiordania, lasciando sino ad oggi irrisolto lo status di Gerusalemme.
La seconda Intifada, esplode con il fallimento sull’accordo di Camp David, in cui la questione sullo status di Gerusalemme, fallisce e nel settembre del 2000, quando la provocazione fatta da Ariel Sharon, passeggiando sulla Spianata delle Moschee, fa esplodere una spirale di violenza e di scontri molto duri tra palestinesi e israeliani con molti attentati, che finisce del 2005, con la nuova presidenza di Abu Mazen.
L’impegno di Abu Mazen è combattere ogni forma di violenza e di violazione dei diritti umani, ma in una situazione di governabilità molto complessa e difficile, poichè l’autorità palestinese può controllare solo alcune aree della Cisgiordania, sia civilmente che militarmente, grazie alle sue forze di sicurezza.
Altre aree palestinesi sono amministrate civilmente, ma il controllo militare è rimasto israeliano, mentre ci sono molte altre aree sotto controllo israeliano sia militare che civile. Il risultato della seconda intifada è la costruzione del muro di separazione che ormai chiude come in una prigione a cielo aperto molte città palestinesi. In una situazione così complessa e conflittuale, sta esplodendo la protesta dei giovani, che vivono la repressione della loro libertà, chiusi da un’occupazione che sta soffocando la loro visione di un futuro possibile e non ci stanno più a guardare e ad aspettare che i governi e la comunità internazionale prendano a cuore, e in coscienza, il loro destino e quello del loro paese.
Tutto è frutto di una disperazione infinita, ogni giovane sente esplodere in sé la determinazione di fare qualcosa che richiami tutta l’opinione pubblica al risveglio di una comunità internazionale che continua a dormire, sulla loro pelle. Scorrono nelle televisioni locali, nei network immagini di giovani sorridenti quando vengono arrestati, come a voler dire: “Ho fatto qualcosa anch’io”!
Giovani che danzano la “Dabke” mentre lanciano pietre contro i militari israeliani. Giovani che si lanciano in un aggressione con un coltello, nei confronti di militari o della polizia dotati di apparecchiature sofisticate, dove le probabilità di uscirne vivo sono impossibili.
Giovani che sono consapevoli, che il loro gesto porterà alla distruzione della casa dei loro familiari, al ritiro dei documenti, all’annientamento della loro famiglia.
Ci si pone tantissime domande e anche Israele si deve chiedere perché un giovane, che ha tutta la vita da vivere davanti a sé, arriva ad un atto così disperato? Sembra inverosimile, che le forze di polizia non riescano ad arrestare uno di questi giovani per poter indagare, capire questo fenomeno. Tutti i giovani palestinesi che hanno fatto queste aggressioni, sono morti! Forse preferiscono una morte così da essere ricordati come “martire”, piuttosto che continuare a vivere chiusi in una “libertà negata”.
Perché questi giovani si scagliano solo contro soldati e polizia? Perché molti ebrei fanno umorismo su questi fatti e sulla morte di tanti giovani? Perché tutti questi giovani sono i nati dopo Oslo o dopo il muro di separazione? Perché il governo d’Israele sta separando Gerusalemme, quando in tutti questi anni è stata garantita l’unità di Gerusalemme? Perché questi giovani hanno scelto la via della violenza?
Di fronte a tutta questa violenza fisica e morale, si rimane attoniti e sconcertati, dinnanzi al grido di dolore di molte madri e molti padri, sia palestinesi che israeliani, che piangono i loro figli, in questa terra.
Una terra promessa per Israele, una terra negata ai Palestinesi, che con il perdurare di questo conflitto, ha solo alimentato odi profondi e laceranti, con la conseguente spirale inarrestabile di tragedie personali e collettive, che incupiscono la prospettiva di trovare una soluzione pacifica. La gente è stanca di vivere in queste condizioni.
La spirale di violenza di questi giorni, deve risvegliare in tutti noi una ferma condanna ad ogni atto di violenza e di sopruso. Non siamo di fronte a una terza Intifada, ma siamo di fronte a insurrezione giovanile, dove ogni giovane di qualsiasi livello culturale e sociale né vuole far parte, per lanciare al mondo il loro messaggio di protesta!
L’impegno di tutti noi, e della comunità internazionale, di lavorare affinchè vengano rispettati i principi etici, morali, religiosi di ogni uomo, per ristabilire tra israeliani e palestinesi, una coesistenza e una convivenza pacifica, costruita su i saldi pilastri della giustizia e del perdono. San Giovanni Paolo II ha lasciato a tutti noi una frase che racchiude tutto ciò che stiamo vivendo: “ Se ci sarà pace a Gerusalemme, ci sarà pace in tutto il mondo”
Autore: Ibrahim Faltas
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