L'ultimo bambino di Auschwitz racconta
Testimoni: Oleg Mandić sopravvissuto alla Shoah
Sul braccio sinistro Oleg Mandić, testimone croato della Shoah, porta il numero IT1894888 tatuato dalle SS. Glielo misero il giorno in cui varcò assieme alla sua mamma i cancelli del campo di sterminio. Era il 12 luglio 1944. Sulla casacca che gli fecero indossare, era stato cucito un triangolo rosso con la punta rivolta verso il basso, che identificava i prigionieri politici. Veniva da Fiume e al momento dell’occupazione tedesca il padre e il nonno di Mandić si erano uniti ai partigiani jugoslavi. Mandić ricorda nitidamente il momento in cui venne caricato su un treno merci con altre centinaia di persone. Non sapeva quale fosse la sua destinazione.
"L'ultimo bambino di Auschwitz" si dice oggi un uomo totalmente liberato dalle catene dell'odio anche se fu lui a chiudere i cancelli del campo di sterminio il 27 gennaio 1945 dopo 8 mesi di prigionia. I suoi 88 anni non lo hanno piegato: gira l'Europa per raccontare come sopravvivere all'orrore e spiega che l'odio porta solo a nuove Auschwitz, ma ci è voluto del tempo per decidersi a farlo.
''L'odio è sempre diretto verso gli altri ma raramente soddisfa chi lo esprime, è un sentimento che produciamo da noi stessi e che solo noi possiamo sopprimere dentro di noi. L'odio non ci gratifica, odiare porta a nuove Auschwitz" afferma Mandić.
La sua testimonianza di ex prigioniero nei campi di sterminio nazisti è - ovunque lui arriva - una straordinaria lezione di civiltà e di cittadinanza consapevole, Oleg Mandić racconta da oltre sessant'anni una storia vissuta sulla sua pelle che ne porta il "marchio" eterno.
Così è stato anche in occasione dell'evento 2021 "Living Memory" davanti ad oltre 3.000 studenti e studentesse trentini e circa 5.000 dalle scuole del resto d'Italia, collegati con le loro classi allo streaming con il Festival della Memoria di Trento. Il testimone degli orrori nazisti parlava dalla sua abitazione in Croazia, da dove ha lanciato un appello ai giovani per contrastare i negazionisti della Shoah.
Oleg Mandić non dimentica i terribili mesi trascorsi al campo di Auschwitz. “Internato all’età di 11 anni, in mezza giornata persi il mio nome e divenni un numero”. Nè potrà dimenticare la profonda fatica umana vissuta dopo esserne uscito, un trauma che si è rifiutato per ben dieci anni di affrontare e raccontare, fino al 1955 quando comprese, scrivendo il suo primo articolo, che era un trauma che non apparteneva solamente alla sua vita ma all'intera umanità e che raccontare il Male era un obbligo morale.
“Quando arrivai ad Auschwitz avevo già compiuto i 10 anni, ma rimasi comunque con mia madre e la nonna nell’area femminile. Dopo due mesi venni ricoverato nel reparto ospedaliero dell’angelo della morte Josef Mengele, dove rimasi fino alla liberazione da parte dell’Armata rossa. Qui trascorrevo il tempo realizzando fiori con le bende di carta crespa” ha raccontato.
“Il viaggio durò tre notti e due giorni. L’unico modo per chiudere gli occhi e riposarsi era appoggiare la testa sulla spalla del vicino. Aprirono i portelloni solo due volte per togliere la paglia infangata e darci dell’acqua: leggemmo la scritta ‘Auschwitz’, ma nessuno di noi sapeva cosa fosse”.
Eppure Oleg Mandić si dice convinto che furono pochi pazzi e tanti obbedienti ad agire secondo le prescrizioni del sistema: “Gli unici militari tedeschi che ho visto al campo erano i medici: il campo di sterminio era di fatto autogestito, tanto che anche i kapò erano detenuti. Lo stermino del popolo ebraico fu deciso dal Ministero della salute di Berlino valutando i sistemi meno onerosi e più efficienti, affinché i detenuti morissero di fame e malattia, nel giro di 7 mesi: una vera pianificazione industrializzata della morte”.
Mandić racconta sempre agli studenti anche la quotidianità all’interno del campo, segnata dall’appello all’esterno delle baracche e dal lavoro sfiancante fino al rancio della sera.
“Il lavoro per la stragrande maggioranza dei detenuti consisteva nel trasportare grosse pietre da un mucchio a un altro, percorrendo una distanza di circa 5-600 metri. Un’occupazione pensata per tenerci occupata la mente e affaticare il corpo fino alla morte naturale. Ogni giorno ad Auschwitz perdeva la vita oltre un migliaio di persone. Qui non c’era spazio per l’amicizia”.
L'ex bambino prigioniero nei campi di sterminio nazisti fu però ancora capace di fiducia, rimanendo amico di un uomo tedesco conosciuto dopo aver scoperto che era un ex colonnello delle SS : dopo la liberazione dei campi di sterminio ad opera dei soldati russi si fece 9 anni di Gulag in Siberia. Qualunque fosse stata la sua storia, aveva pagato: poteva capire anche lui l'orrore.
E ai giovani assegna un compito. “Raccontare ad altri ciò che avete ascoltato sarà la vostra missione. Sarete chiamati ad opporvi alle chiacchiere di chi si dichiara negazionista dell’Olocausto e ad abbattere il muro dell’indifferenza”.
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